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 2018  giugno 09 Sabato calendario

Tutte le missioni e le uccisioni del Mossad in un libro

Dubai, 18 gennaio 2010. A partire dalle 7 del mattino e alla spicciolata nelle ore successive, almeno 26 uomini sbarcano nell’aeroporto della città del Golfo con voli provenienti da diverse capitali europee. Hanno un solo compito da portare a termine entro la notte: eliminare fisicamente Mahmoud al-Mabhouh, palestinese e co-fondatore del braccio armato di Hamas. La maggior parte di loro fa parte di un’unità speciale del Mossad chiamata Caesarea, squadra d’élite i cui membri non hanno nome e identità se non camuffata e non si incontrano se non quando devono colpire un obiettivo.
L’unità è incaricata di assassinii mirati, sabotaggi e tutte le operazioni più delicate in Medio Oriente. Il corpo senza vita di al-Mahmud verrà trovato la mattina del giorno dopo nella sua stanza d’albergo.
Il responsabile della chirurgica quanto implacabile eliminazione di un uomo considerato da Israele uno dei suoi nemici giurati fu indicato in Meir Dagan, dal 2002 al 2011 direttore proprio del Mossad, la principale organizzazione israeliana d’intelligence. Poco prima di lasciare il suo incarico per divergenze politiche con il premier Netanyahu, lui che certo non amava le rivelazioni, ha svelato un piccolo segreto. Nel suo ufficio di Tel Aviv, il capo dei servizi aveva la foto di un uomo con la barba, suo nonno, che implorava pietà dalle truppe naziste che lo avrebbero ucciso. Una foto che Dagan mostrava ai suoi uomini prima di ogni operazioni delicata. “Molti ebrei durante l’Olocausto sono morti senza combattere”, spiegava. “Noi non possiamo più permettercelo”.
Con circa 2300 missioni segrete, “dal dopoguerra a oggi Israele ha assassinato molte più persone di ogni altro Paese occidentale (in operazioni di questo tipo, ndr)”. Ne è convinto Ronen Bergman, giornalista investigativo israeliano di cui è stato da poco tradotto in inglese “Rise and Kill First” (Alzati e uccidi per primo), volume di quasi 800 pagine che si propone di documentare, sulla base di testimonianze anonime di agenti o ex agenti degli apparati di sicurezza, la storia segreta degli omicidi mirati attribuiti al Mossad: daAbu Hassan, autore della strage di Monaco 1972, ad Abu Jihad, braccio destro di Arafat, fino appunto al leader dell’Olp, scomparso nel 2004.
Il titolo del libro è una citazione dal Talmud, “se qualcuno viene a ucciderti, alzati e uccidilo tu per primo”, che l’autore utilizza per illuminare la logica dietro le operazioni del Mossad. Quando un popolo si sente perennemente in pericolo, la spinta è quella ad agire per legittima difesa.
“La dipendenza di Israele dall’assassinio come strumento militare non è un caso”, scrive Bergman all’inizio del volume, “ma si origina dalle radici rivoluzionarie e militanti del movimento sionista, dal trauma della Shoah, dal senso che il Paese e il suo popolo sia in perenne pericolo di annientamento. E che nessuno verrà in aiuto, quando il peggio dovesse accadere”.
Eppure, denuncia Bergman, proprio in nome della sicurezza nazionale, si è superata abbondantemente la soglia della legalità, portando a termine “esecuzioni sommarie di sospettati che non rappresentavano alcuna minaccia immediata, in violazioni di leggi nazionali e di codici di guerra”. Una contro-argomentazione, esposta nel volume, arriva ancora una volta attraverso le parole di Dagan, una delle fonti di partenza di “Rise and Kill First”. L’ex capo del Mossad, scomparso nel 2016, sostiene che le eliminazioni mirate dei nemici – in gran parte appartenenti a gruppi palestinesi, egiziani, libanesi, siriani, iraniani – hanno contribuito a depotenziare conflitti aperti e su larga scala, primo fra tutti quello catastrofico e ancora incombente tra Tel Aviv e Teheran.
D’altra parte, Bergman nota come la proverbiale efficienza dell’intelligence israeliana abbia portato a innegabili successi – tra i quali, la liberazione di 102 ostaggi ad Entebbe in Uganda nel 1976 – ma a dubbi risultati strategici. L’eliminazione a sangue freddo di Abu Jihad, braccio destro di Arafat, all’inizio della prima Intifada (1988), si rivelò controproducente per il processo di pace.