il Fatto Quotidiano, 9 giugno 2018
È la stampa, bruttezza!
Sta montando la polemica sul modo di comunicare dei nuovi governanti che finora si sono sottratti ai confronti in tv, preferendo monologhi in diretta Facebook o finte interviste (tipo Barbara D’Urso). L’altro giorno, su La7, Gaia Tortora ha giustamente sbeffeggiato i pentaleghisti che protestavano per l’assenza di giallo-verdi nello studio pieno di esponenti dell’opposizione, spiegando che erano stati i 5Stelle e la Lega a rifiutare l’invito. Diciamo subito che nessun politico è obbligato a mischiarsi con i pollai televisivi popolati dalla solita compagnia di giro di figure, figurette, figurine e figuranti morti di fama che bivaccano in tv da mane a sera a berciare, interrompere, contraddire e soprattutto contraddirsi. E non c’è nulla di scandaloso se leader o ministri parlano in diretta Facebook o in streaming sui social, equivalente moderno degli antichi comunicati stampa. Purché non si limitino a quello. Chi ricopre pubbliche funzioni non può limitarsi alla comunicazione unidirezionale, camuffata dietro la foglia di fico di qualche risposta ai commenti degli utenti in rete. C’è anche un dovere di trasparenza dinanzi all’opinione pubblica, che va adempiuto confrontandosi con giornalisti informati, in grado non solo di muovere obiezioni e svelare altarini, ma soprattutto di rivolgere la fatidica “seconda domanda” smascherando seduta stante bugie, inesattezze e imprecisioni contenute nella risposta precedente.
È proprio questo pericolo che tiene lontani – non da oggi: da sempre – i leader dai giornalisti critici e informati. Frequentando alcuni talk show tv da una dozzina d’anni, potrei raccontare di decine di politici che respingevano gli inviti di Santoro, Gruber e Floris ad Annozero, Servizio pubblico, Otto e mezzo, Dimartedì perché c’ero io. Salvo poi magari chiedere un dibattito con me quando avevano l’acqua alla gola e tentavano di tornare a galla creando un “evento” che facesse ascolti e clamore. Per fortuna né Santoro, né Gruber, né Floris hanno mai accettato di levarmi di torno per accaparrarsi un ospite appetitoso. Il quale però trovava sempre altri anchorman disposti a fargli scegliere gli interlocutori e le domande. È così che si turba il “mercato” dell’informazione: chi rifiuta di sedere nei salotti scomodi sa benissimo che ne troverà altri più comodi in cui esibirsi a rischio zero e a vantaggio mille (per lui). Quello degli intervistati che decidono gli intervistatori e le domande è un malvezzo unico nel mondo libero: nelle altre democrazie, se uno vuole parlare solo con chi vuole lui e delle cose che vuole lui, in tv non mette proprio piede.
Anche perché non può possedere né controllare tv. Ora però, così almeno dicono, c’è il “governo del cambiamento”. E uno dei banchi di prova sarà proprio il suo rapporto con l’informazione. Chi accusa Conte, Di Maio e Salvini di essere allergici al contraddittorio fa ridere, visto che di contraddittorio ai tempi di B. o di Renzi se n’è sempre visto poco o punto. Ma sbaglierebbero di grosso Conte, Di Maio e Salvini se si sottraessero a un contraddittorio autorevole: basterebbe accettare, in tv e sui giornali, dei faccia a faccia con uno o due giornalisti non scelti da loro e “senza rete”. Chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere dalle domande, anche le più ostili e urticanti. Ma non ci sono solo le interviste. L’altra grande funzione di una stampa libera, mai prevenuta ma sempre scettica, è aiutare il potere a sbagliare meno. Ciò che è mancato a Renzi, per citare solo l’ultima meteora che ha dilapidato in quattro anni un enorme patrimonio di consensi anche perché la grande stampa l’ha sempre leccato e incoraggiato a sbagliare (dalla catastrofica campagna referendaria alla scelta demenziale di spingere Di Maio tra le braccia di Salvini).
L’altro giorno alcuni giornali, fra cui il Fatto e il Corriere (con Gian Antonio Stella) hanno segnalato il pericolo che il “governo del cambiamento” riciclasse alcuni vecchi gattopardi galleggianti: come Vincenzo Fortunato, già potente capo di gabinetto di ministri di destra (Tremonti) e di centrosinistra (Di Pietro), ora avvocato di grandi gruppi. I boatos lo davano in pole position come segretario generale a Palazzo Chigi grazie all’amicizia con Giancarlo Giorgetti. Ma ora il premier Conte, si spera anche grazie a quanto ha letto sui giornali, ha deciso diversamente. Lo stesso è accaduto, per un fatto molto più trascurabile, nel M5S. Nei giorni della difficile gestazione del governo, il Fatto ha pubblicato ritratti al curaro di alcuni papabili ministri, fra cui il dimaiano Vincenzo Spadafora. Su di lui non gravava alcuna questione penale o morale: quelle vecchie intercettazioni con l’ex amico Balducci erano state ritenute irrilevanti dagli stessi pm, che non ritennero di ascoltarlo neppure come testimone. Ma andavano conosciute, per dovere di cronaca: la nostra prima e unica bussola. Dopo quell’articolo il braccio destro di Di Maio, che per quel poco che sappiamo è un politico competente e corretto, è uscito dalla lista dei ministri, dove non avrebbe sfigurato: forse darà il suo contributo come sottosegretario. Se la stessa attenzione (o anche un po’ meno) alle questioni di opportunità, oltreché a quelle penali e morali, l’avessero usata i vecchi partiti, forse non sarebbero finiti come sono finiti.
Ps. L’altro giorno, in un dibattito su Sky, Paolo Becchi se l’è presa con la Repubblica definendola graziosamente “il giornale dell’orfano”. Cioè di Mario Calabresi, figlio del commissario Luigi assassinato nel 1972 da Lotta continua. Ho polemizzato e continuerò a polemizzare con Mario e col suo giornale sulle idee, ma sentirlo oltraggiare in quel modo in tv mi ha fatto ribrezzo e mi è venuta voglia di abbracciarlo.