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 2018  giugno 09 Sabato calendario

Sandro Veronesi scrive un poemetto per la Juventus, la squadra degli ultimi che per 90 minuti diventano primi

Certe cose non le puoi neanche spiegare. Stanno lì da qualche parte tra il cuore e il fegato. Palpitano o fanno male. L’amore è così. Il calcio, pure. Quella cosa (la seconda) Sandro Veronesi l’ha sentita che aveva sei anni o giù di lì. «Ero in ospedale per le tonsille. Uscii juventino. I miei amici dicono sia stato un caso di malasanità...». Le tonsille sono sparite, per il tifo bianconero non c’è speranza. Ti resta appiccicato addosso senza se e senza ma. «Vince l’Juventus, vince sempre», è l’incipit di un poema che lo scrittore toscano ha scritto per la sua squadra (la versione integrale è su corriere.it/cultura). L’Juventus con l’apostrofo, come la chiamavano i vecchi «perché la J non è una lettera del nostro alfabeto». E allora l’Juventus e basta. Come i nomi di certi giocatori stranieri che pronunciano male, Lanrdup, Neved o Desciamps, e tanto si capisce lo stesso. E neanche gli italiani si salvano e gli accenti vanno dove gli pare e così Caùsio e così Favèro. 
«Il mio poema è un regalo ai tifosi per il settimo scudetto di fila. Ma non è che voglio irridere gli avversari». Perché la sua Juve è la squadra degli ultimi. «Di quelli che soffrono, sono emarginati e qualche volta disprezzati. La squadra di chi sta in provincia. La mia prima Juve era quella di Heriberto Herrera, del brasiliano Cinesinho e dello spagnolo Del Sol. Gente che non vinceva i Palloni d’Oro ma portò via lo scudetto all’Inter invincibile degli anni Sessanta. E a me dava un po’ fastidio. Io stavo con i deboli e la prima squadra che completai sull’album delle figurine aveva i colori bianconeri. Bellissimi, una folgorazione. Mi “innamorai” di Sandro Salvadore. E non mi chiamo Sandro per niente. Salvadore, un campione persino quando segnò due volte. Ma nella sua porta». 
La squadra degli ultimi che per un giorno, anzi solo per novanta minuti, diventano primi. E succede quasi tutte le domeniche e anche certi altri giorni da quando ci sono le coppe. La squadra di quelli «che mietono, di quelli che arano, che raccolgono i pomodori, insaccano le mortadelle e si mozzano le dita potando gli olivi». E ci sono tutti, un’Onu dei disperati, «indiani, romeni, albanesi, senegalesi» e anche gli italiani. Perché ci sono gli italiani che stanno male e non hanno nessuna colpa. E per questo e per loro l’Juventus è la Fidanzata d’Italia. La squadra delle campagne e delle periferie, di chi vive nelle «frazioni aggrappate alla provinciale» di «uomini e donne per i quali le gambe contano più della testa» di «emigrati, tornati, emigrati, tornati, uomini e donne che non vincono mai niente, salvo quando la Juventus vince qualcosa per loro».
Sandro Veronesi lo dice, lo scrive senza l’arroganza del primo della classe, di chi ha vinto tutto e «però siamo anche la squadra più perdente. Perché per noi è così: o primi o niente. E non è questione di presunzione». Solo di statistica. Una passione trasversale che parte dal basso e resta lì, anche se il padrone della Juve è il più ricco d’Italia «ma quando vinci la gioia è la stessa, la felicità dell’operaio uguale a quella di Agnelli». E spiega che è la «squadra del tifo inconsapevole, degli operai che tifano per il padrone, dei poveri che pagano i lussi del ricco, degli emigranti che vogliono rimanere italiani, degli immigrati che vogliono diventarlo». E quando il tifo è così anche tu che sei dell’Inter o del Milan ti accorgi che provi le stesse cose vestite con dei colori diversi. Una passione che non si fa chiudere dentro le mura di una città, anzi esplode nelle periferie dimenticate. Magari per Sandro sono state le tonsille o il sollievo di uscire dall’ospedale o solo il primo pallone che come per tutti i bambini ha due soli colori, bianco e nero e non c’è verso di colorarlo.