Corriere della Sera, 9 giugno 2018
Storie di donne pastori
Tutta colpa delle vacanze. «Ogni estate tornavo dai nonni, sulle montagne parmensi. Amavo la natura e gli animali, ma ero cresciuta a Milano e non avevo nessuna esperienza di quel mondo». Sara Simonetti, 38 anni, quattro anni fa ha lasciato comodità e lavoro in città e ha iniziato a fare l’allevatrice. «Mi informai sulle razze locali, come la pecora cornigliese. Poco adatta per latte e formaggio, in via d’estinzione. Così ho deciso di partire da qui».
Sara è una pastora, orgogliosa e consapevole. Appartiene a quella nuova generazione che torna nei pascoli per passione e per scelta, per impedire che scompaiano le identità dei territori marginali. «Dalla mattina alle 5 e mezza fino al tramonto c’è sempre qualcosa da fare, estate e inverno. È un lavoro che deve piacerti, ma che ti dà tante soddisfazioni» assicura. Di pecore cornigliesi, razza creata nel Settecento dai Borboni incrociando ovini locali con merinos spagnoli per migliorare la qualità della lana, ne restano circa 800, comprese le 50 di Sara. Varietà a rischio, come altrove per la pecora Lamon nel Bellunese o la Rosset in Val d’Aosta. Per questo è nato il progetto del «gemellaggio tra le tre pecore», promosso dal Parco nazionale dell’Appennino tosco emiliano e appena siglato dalle amministrazioni locali. Un’iniziativa che vede le donne in prima fila.
L’ideatrice è Anna Kauber, paesaggista che negli ultimi tre anni ha girato tutta l’Italia con la sua Panda per raccogliere le testimonianze proprio della presenza femminile nella pastorizia e realizzare il documentario In Questo Mondo. «Un’alleanza tra le tre realtà per scambiarsi informazioni e consigli è necessaria – spiega con passione —. La perdita della biodiversità è una catastrofe non solo ambientale, ma anche culturale e sociale. E la presenza delle donne ha un’importanza incredibile, perché sono loro che creano una famiglia. E poi hanno quella straordinaria capacità di comunicare empaticamente con l’animale, per esempio quando sta per partorire. Anche il rapporto con il latte è diverso».
Renata Tollardo, di Lamon, 69 anni, è invece la memoria storica di un mondo che si augura non scompaia. «Sono figlia di pastori. Mia madre lasciò Torino per seguire mio padre nelle transumanze. D’estate da piccoli andavamo anche noi, era un’esperienza meravigliosa. Poi arrivò la crisi, molti andarono in fabbrica, noi ci trasferimmo in Svizzera». Le manifatture trovarono più conveniente prendere i tessuti da un’altra parte. Fare il pastore, mai stato un lavoro di prestigio, divenne anche economicamente insostenibile. Renata spera che i boschi non si mangino del tutto i terreni dove andavano i suoi avi. «Lamon una volta era un marchio conosciuto. Non è solo nostalgia del passato, fa piacere vedere che ci sono giovani che ancora credono che possa offrire opportunità».
Luana Usel, 36 anni, ha messo da parte la laurea in lingue per mantenere in vita la tradizione dei tessitori della Valgrisenche, noti per la lavorazione della lana della pecora Rosset. «Come tutte le varietà autoctone non è pregiata come il cachemire o il merinos. È ruvida, ma proprio per queste sue caratteristiche è unica e naturale». Luana è una delle tre socie della cooperativa «Les Tisserands», voluta dal Comune quasi 50 anni fa proprio per questo scopo. «Stiamo cercando di creare una rete di rapporti con tutti gli allevatori, ma anche di far capire all’esterno, a chi vive in città, l’importanza che ha questa lana, il rispetto che merita questo mondo».
Il gemellaggio è solo un tassello, ma può servire a molto. Poi c’è la sfida e la fatica quotidiana. Sara nella sua azienda di Corniglio la sopporta con serenità. «Non diventi ricco, ma io adesso mi sento davvero appagata. Cosa c’è di più bello che far nascere un agnellino, dargli il biberon, oppure essere riconosciuta quando entri in stalla?».