Mentre da tutte le parti affluiscono tributi a Philip Roth, mi sembra opportuno riconsiderare la prima fase della sua carriera, una delle più peculiari nella letteratura americana. Lamento di Portnoy (1969) è stata la mia introduzione alla sua opera. Lo lessi nella prima edizione in brossura e pensai: ecco una voce nuova assolutamente assordante, un modo di essere spiritoso completamente diverso: trasgressivo, corrosivo ma con qualcosa di estatico nella sua comicità.
Poi mi inoltrai nei tre libri precedenti, Addio, Columbus, Lasciar andare e Quando lei era buona. Erano coinvolgenti e divertenti: ti facevano pensare, spesso ti facevano sorridere, ma non ti facevano ridere. Ah, pensai, è quello che Saul Bellow chiama “un accumulatore di esuberanza”, tenuto a freno dalla Serietà Profonda e, nel suo caso, da un’esagerata riverenza per Henry James. Lamento di Portnoy era il momento in cui si era davvero “lasciato andare”: ora le energie comiche sarebbero sicuramente eruttate fuori, spargendosi ovunque.
Non andò così. La vita di uno scrittore non è distaccata e monastica come a qualcuno piace pensare; e i romanzieri, in particolare, sono innegabilmente immersi nel mondo. E che cosa fece il mondo con Portnoy? Fu acclamato dalla critica (non solo per lo scandalo suscitato) e vendette più del Padrino di Mario Puzo. Diventò anche un tema di dibattito nazionale, con i battutari da talk show che naturalmente concentrarono la loro attenzione sull’onanismo cronico (Barbra Streisand osservò che le sarebbe piaciuto incontrare Roth, ma non avrebbe gradito “stringergli la mano”). Che cosa avrebbe detto Henry James?
Roth reagì con coscienziosa perversità: scrisse, o meglio buttò giù di corsa, tre romanzi comici che non facevano ridere, in modo quasi nevrotico, Cosa Bianca Nostra – conosciuto in italiano anche come La nostra gang – (protagonisti: Tricky e i suoi amici), con Trick E. Nixon nel cast, Il seno e Il grande romanzo americano (400 pagine ad alto tasso di facezie sul baseball).
Qualunque cosa si discostasse dalla sensazione causata da Portnoy, a quanto pareva, minacciava il suo equilibrio.
Tutto venne spiegato nella Mia vita di uomo (1974). Roth aveva passato gli anni dal 1959 al 1963 invischiato in un matrimonio da incubo, risultato di una bizzarra, reciproca follia. Lei lo aveva intrappolato (un basso espediente, con un test di gravidanza) e lui si era intrappolato da solo, irretito dalla difficoltà, dalla complicazione e dalla seriosità in maglione girocollo del suo (accademico) ambiente.
«È stata la letteratura a ficcarmi in questa situazione», scriveva nella Mia vita di uomo, «ed è la letteratura che ora deve tirarmici fuori». Il trittico comico mancato fu la sua ritorsione contro i valori letterari e la Serietà Profonda.
Ma ora si era placato. La mia vita di uomo inaugurò una lunga serie di romanzi autobiografici (quelli con Nathan Zuckerman), fino a culminare in quella che viene chiamata la “Trilogia americana” (1997-2000): Pastorale americana, Ho sposato un comunista e La macchia umana, una vasta opera di una ricchezza narrativa quasi vittoriana. In mezzo ci sono stati altri trionfi: La controvita (l’unico capolavoro postmoderno insieme a Rumore bianco di DeLillo) e Il teatro di Sabbath (che personalmente trovo ripugnante, ma è amato da molti, sia donne che uomini). A cavallo del nuovo millennio Roth ripiegò su una maggiore frugalità verbale (i racconti lunghi dell’ultimo periodo) e alla fine su un dignitoso e imperturbabile silenzio.
Gli scrittori autenticamente originali suscitano sempre divisioni. Roth si è inimicato non solo il lettore occasionale, ma comunità intere, vituperato prima dall’ebraismo mondiale e poi dal femminismo mondiale. Questa ostilità corale era, in entrambi i casi, essenzialmente di natura socioculturale e non letteraria.
Il disagio storico si può capire, ma l’ebraismo mondiale non ha capito nulla di Roth, fiero di essere ebreo oltre che di essere americano. E la contestazione femminista è impulsivamente generica: non rileva nessuna distanza fra Roth e i suoi (spesso deplorevoli) narratori; senza contare che se si mette al bando la misoginia come argomento allora si mette al bando anche il Re Lear e molto altro. La mia impressione soggettiva è che Lamento di Portnoy rimanga il diamante della corona. Qui il Romanzo Ebreo-Americano si restringe a un concetto: le ragazze gentili (nel senso di non ebree), leshiksa (“cose detestate”), dove antiche leggi di purezza vanno a cozzare contro la femminilità americana e l’inevitabilità dell’America materiale. InPortnoy ci sono tutti i grandi temi (tutti eccetto la mortalità): padri, madri, figli, la libido maschile, la sofferenza e Israele. Roth dà fuoco al suo falò con quel tipo di genio satirico che spunta fuori, se si ha fortuna, forse soltanto una volta in una generazione.
Martin Amis/Guardian News & Media.
(Traduzione di Fabio Galimberti)