Tuttolibri, 9 giugno 2018
Ecco i poemetti che Bolaño compose negli anni Ottanta: «Ho sognato che la vita mi amava e mi sono messo a scrivere poesie»
Certi scrittori entrano nelle nostre vite all’improvviso e iniziano una rivoluzione silenziosa. La prima volta che li senti nominare sono solo un nome, un insieme di sillabe, un consiglio di qualcuno, una copertina, una citazione. Come quando ho scoperto per caso Kerouac da ragazzino oppure Ginsberg o John Fante o Viaggio al termine della notte e la letteratura per me ha smesso di essere solo letteratura ed è diventata qualcos’altro: vita, un altro continente, cose da lasciare perdere o da realizzare.
La prima volta che ho sentito parlare di Bolaño me ne ha parlato Lorenzo Jovanotti diversi anni fa dicendomi che dovevo proprio leggerlo che c’era già dentro qualcosa di mio, a mia insaputa. Lorenzo è un grande conoscitore e amante della letteratura sudamericana e non solo e i suoi consigli sono sempre preziosi. Così presi I detective selvaggi anche se il titolo non mi ispirava più di tanto e da quel momento ho cominciato a viaggiare tra l’emisfero sud e l’emisfero nord con lui. Tra il Messico e gli Stati Uniti, tra il Cile e la Spagna in appartamenti di tutti i tipi. Ho conosciuto posti che non conoscevo, letti mai visti prima su cui si svolgevano le conversazioni più importanti, storie che per me adesso sono storie vere. Come la storia infinita di 2666 scritto negli ultimi anni della sua vita. O il romanzetto Lumpen meraviglioso e ambientato in Italia. Fino a questi giorni in cui sto rileggendo I cani romantici la sua raccolta di poesie che esce finalmente tradotta in italiano da Ilide Carmignani per Sur.
Le sue poesie potrebbero essere dei romanzi brevissimi così come 2666 potrebbe essere un poema di migliaia di pagine. La sua scrittura è sempre lirica, sempre epica perché ha il soffio della vita dentro.
Un paio di settimane fa ho suonato a Torino alle OGR era una serata pensata da Nicola Ricciardi per il Salone del Libro, mi hanno chiesto di fare un concerto acustico dove le canzoni si mischiassero alle letture e ho pensato che Bolaño poteva aiutarmi, ho pensato alla sua solarità anche quando parla di sparatorie, a quel soffio vitale che hanno le sue pagine. E mi sono ricordato di quelle ultime poesie di Tre che sono suoi sogni messi in fila. Sogni come sempre tra letteratura e vita, come sempre tra l’emisfero sud e l’emisfero nord. Con persone che si inseguono o che sono immobili da anni oppure irrazionalmente felici, e libri che vanno a fuoco, traduttori pazzi che traducono De Sade a colpi d’ascia in mezzo a un bosco, una legione di Tori Meccanici, spiagge dimenticate. Così i sogni di Bolaño sono stati il filo conduttore di quel concerto e scandivano le canzoni di Terra, un disco etnico ma di un’etnia immaginaria, quell’etnia senza nome che si sposta da sempre e si sposterà sempre, per inquietudine, per fame, per paura, per amore, per non morire, per morire o per procreare. I sogni rapidi di Bolaño erano perfetti per quelle canzoni, sono sogni descritti in pochi secondi con quel ritmo di prosa che resta anche una volta tradotto (sempre di Ilide Carmignani). La scrittura di Bolaño in effetti è piena di musicalità anche se lui non parla mai di musica, solo ne L’ultima conversazione cita i Suicide, i Pogues e Bob Dylan. I lettori accaniti di Bolaño sono una specie di setta, io ne faccio parte e cercando di approfondire il suo rapporto con la musica, grazie a un articolo di Giulia Cavaliere su Minima&Moralia, ho scoperto che esiste una playlist di Spotify in cui qualcuno ha messo in fila una settantina di canzoni da lui citate rovistando in tutta la sua opera.
Tra la setta dei suoi lettori c’è anche Patti Smith. Nel suo M Train ho trovato la foto della sedia su cui Bolaño scriveva. In uno dei suoi pellegrinaggi Patti Smith è andata a incontrare la sua famiglia e in un’intervista con Tiziana Lo Porto dice: «L’ho fotografata perché era la sua sedia preferita, dove amava sedersi per scrivere, e visto che non aveva una macchina da scrivere ma scriveva al computer ho pensato che la sedia fosse un’immagine più romantica della foto di un computer. Mi hanno detto che quella sedia se la portava dappertutto, proprio l’amava. Era la sua sedia fortunata».Sempre Patti Smith scrive in M Train: «che triste porzione d’ingiustizia è stata riservata al bel Bolaño: morire a cinquant’anni nel pieno della sua creatività. L’avere perso lui e ciò che ancora non aveva scritto ci ha privati di uno dei segreti del mondo».
Per me poterlo leggere durante un concerto è anche un po’ come prendersi una rivincita sulla sua assenza, un po’ come mi capita leggendo Tondelli in pubblico e mi torna in mente quando un suo amico, andato a trovarlo in ospedale in uno degli ultimi giorni, gli chiede come sta e Tondelli risponde «infinitamente triste». E poi gli confessa il timore di non aver lavorato abbastanza e che sarebbe stato ricordato come uno scrittore emiliano minore. Per me è un atto di umana battaglia della vita contro la morte leggerlo a voce alta, a voce amplificata a decenni di distanza, oltre la sua scomparsa, fare continuare l’eco delle voci di questi grandi scrittori.
E adesso rieccomi su I cani romantici, le poesie di Bolaño come romanzi di due minuti e di quattro righe. Tra il Messico e gli Stati Uniti, tra case basse sul sedile posteriore dell’auto di un contrabbandiere a guardare fuori dal finestrino i tramonti d’infinito bianco o d’infinito nero.
Lo penso seduto a scrivere su quella sedia qualsiasi, forse anche un po’ più scomoda di una sedia qualsiasi ma capace di trasportarlo tra l’emisfero sud e l’emisfero nord, al di là dei deserti, tra letteratura e vita cercando di farle coincidere il più possibile.
«Ho sognato che mi innamoravo di Alice Sheldon. Lei non mi amava. Così cercavo di farmi ammazzare in tre continenti. Passavano gli anni. Alla fine, quando ormai ero molto vecchio, lei appariva in fondo al lungomare di New York e a gesti (come quelli che si fanno sulle portaerei per fare atterrare i piloti) mi diceva che mi aveva sempre amato».