Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  giugno 08 Venerdì calendario

«Il windsurf è libertà, ho rinunciato a un figlio per leggere il vento»


Vedersi a casa sua, a Marina di Grosseto, sarebbe stato meglio, credo, per tutt’e due.
Al Foro Italico, nel suo ufficio da vicepresidente del Coni, Alessandra Sensini non perde simpatia, di quella spontanea, a prima vista, ma sembra un uccello in gabbia. La vedo al lavoro (scrivania, molto telefono, ingresso segretaria un paio di volte) e la vedo nelle poche foto al muro, fare evoluzioni sul windsurf, gambe e braccia in tensione, tutta bagnata, un volo da farfalla impazzita di luce, come il girasole di Montale. Lasciando da una parte la California e i suoi miti marinari, c’è in questo sport un senso di libertà e di giovinezza, o sbaglio?
«C’è, ed è per questo che l’ho scelto».
Ho sentito dire che lei era bravissima in tanti sport, che in una partita di basket segnò 51 punti.
«Veramente, 61. Ho fatto nuoto, tennis, corsa campestre, ciclismo, basket, ero competitiva per natura, ma il richiamo del mare alla fine era più forte di tutto. Il primo insegnante è stato mio padre Goffredo. S’immergeva fino a 90/100 metri. A 8 anni mi ha portata sotto a meno 10, mi veniva il panico.
La bombola di ferro, la mancanza d’aria. Mi è stato utile, l’ho capito dopo qualche anno quando al panico resistevo. Avevo imparato, senza saperlo, a 8 anni. Era molto sportivo, mio padre, un po’ incosciente e un po’ padre-padrone. Ci sbatteva in mare con la tavola, me e le mie sorelle, anche d’inverno, quando davanti a casa c’erano libecciate e sciroccate. Spesso perdevamo la tavola e tornavamo a nuoto. Mia madre è morta giovane, a 54 anni, ma ho sempre pensato che continuasse a guardarci, noi quattro: le gemelle Irene e Leonora, Paola più giovane di 3 anni e io di 8».
Ho letto una sua definizione di windsurf : una partita a scacchi col cuore che batte a 190.
«È vero che la prima dote richiesta è la fisicità, tutti i muscoli sono coinvolti, dal collo ai piedi, lo sforzo è asimmetrico, ma in questo sport si cerca l’equilibrio e c’è spazio per il ragionamento. L’elemento più importante è il vento, molto più del mare. Il vento può far perdere la medaglia. Bisogna imparare a leggere il vento. Perché sorride?».
Perché m’è venuto in mente “Il vento non sa leggere”, film strappacore con Dirk Bogarde e Yoko Tani. Lei non era ancora nata. Mi faceva sorridere l’idea di leggere il vento, che però non sa leggere.
«In questo sport è indispensabile leggerlo, e rincorrerlo, perché senza vento non c’è gara né allenamento valido. Non c’è un vento uguale a un altro. Dalla Grecia alla California cambia tutto, ma può cambiare tutto anche sullo stesso tratto di costa sarda».
Quando ha capito che sarebbe stato windsurf per sempre?
«A una delle prime trasferte all’estero. Capii che non si poteva chiedere di più a uno sport che faceva girare il mondo alla lettera, da Porto Sant’Elpidio alle Hawaii, dalla Liguria all’Australia, in Australia sono già stata venti volte, ed essere sempre a contatto con la natura. Il mare, il vento, il sole».
Adesso tocca a me: perché sorride?
«Perché fin da piccolina il medico mi diceva: tu hai una pelle lentigginosa e molto chiara. Devi esporla al sole meno che puoi, se non vuoi riempirti di eritemi. Non gli ho dato retta, naso sempre spellato, ma ho speso una cifra in creme di protezione: erano la parte più pesante del mio bagaglio da giramondo».
Domanda disinteressata alla giramondo: quali sono i pezzi di mondo migliori per il suo sport?
«Perché disinteressata?».
Perché non ho intenzione di sfruttare la risposta, ma a qualche lettore può interessare.
E perché su una tavola lunga 372 centimetri e con una vela di 7,4 metri quadrati mai salii né salirò.
«Guardi che ci sono anche surfer che non sanno nuotare. Non molti ma ci sono».
Ecco, io so nuotare. È tutto il resto che non so. Ma so cosa mi sono perso. Lei ha gli occhi che ridono quando parla del mare e del vento da rincorrere.
«Giusto il momento di sottolineare un altro aspetto positivo: non ci si annoia mai, in mare. Possono sembrare ripetitivi gli esercizi in palestra, e un po’ lo sono, ma come in tutti gli sport il talento non basta senza allenamento. Sempre per via del vento, che è mutevole, succede spesso di dover improvvisare di fronte a un imprevisto, di cambiare il piano che s’era deciso in partenza. Tutto questo rende molto reattivi, non è l’adrenalina che manca.
Bisogna saper vincere il panico, saper improvvisare, amare l’avventura. Torno alla domanda sui luoghi: la Sardegna di nord-ovest, ma anche il golfo di Cagliari, le Hawaii, la California che va verso il Messico».
Momenti difficili ne ha vissuti?
«Come tutti. I due peggiori in acque italiane, non in capo al mondo. In quattro amici avevamo deciso di partire da Noli e raggiungere Bordighera. Partiamo intorno alle 13. C’era tramontana, vento di terra che tende a spingerti sempre più al largo. In breve, era ottobre, il vento è calato, faceva freddo, era buio, per tornare a riva non ci restava che remare. Per fortuna ci ha tirato su un peschereccio. La seconda volta ero da sola, non sono stata abbastanza attenta. Ero nel sud della Sardegna, il vento mi ha portato verso scogliere a picco, potevo uscirne solo arrampicandomi. E mi sono arrampicata, una fatica terribile aggravata dalle spine di riccio che si piantavano nei piedi».
Come ha reagito suo padre davanti alle medaglie mondiali,
olimpiche?
«Era fiero di me, anche se non lo dava a vedere. Mi ha seguita a Sydney, a Pechino».
Lei ha partecipato a sei Olimpiadi. Brevi cenni.
«A Barcellona ero una ragazzina senza la giusta forma mentis, mi sentivo come Alice nel Paese delle Meraviglie. La prima volta al Villaggio Olimpico sognavo di incontrare Carl Lewis, il mio idolo».
Equivalente nello sport femminile?
«Sara Simeoni, senza dubbio».
La sua gara?
«Due partenze anticipate, ero in zona-medaglia ma finii settima.
Bellissima esperienza, comunque».
Dura più il ricordo di una vittoria o di una sconfitta?
«Di una sconfitta. Una vittoria si vive, in quel momento c’è solo esultanza, felicità. Una sconfitta la si rivive, tiene compagnia più a lungo. Ma poi basta non esagerare, in un senso o nell’altro. Si vince, si perde e alla fine da tutto si impara».
E siamo ad Atlanta.
«Altra atmosfera rispetto alle feste di Barcellona. A Savannah, lontani dal Villaggio. Qui credo di aver fatto i conti per la prima volta con la paura di vincere. Strappo un bronzo all’ultima prova, bene così. Non bene invece il bronzo del 2004 ad Atene, perché avevo l’oro in mano.
Forse in Grecia ero partita col piede sbagliato, tante piccole contrarietà mi davano sui nervi. E il vento ha giocato un ruolo decisivo, più ad Atene che a Pechino, dove mi battè una cinese. Argento».
Sydney, il giorno magico.
«Sì, il sogno che s’avvera. Molti ancora oggi mi dicono quanto sia stata spettacolare la sfida con Amalia Lux, la tedesca. Lo pensavo in gara: questa è tosta, non sarà facile batterla».
Dicono che lei cantasse, orientando la tavola verso l’oro.
«Non ricordo, ma se cantavo era certamente un pezzo dei Queen».
Poteva chiudere prima di Londra?
«Sì, ma ero curiosa. Nello sport si fissano paletti, poi se ne fissano di nuovi. Ero reduce da un infortunio, ho chiuso al nono posto, alcune atlete potevano essermi figlie».
Bilancio?
«Sono contenta della vita che ho fatto, me la sono costruita. Mi sono sempre impegnata al massimo, ho fatto molti errori. Uno è quello di non essermi imposta, di non aver picchiato i pugni sul tavolo davanti a scelte che non condividevo».
Di quale vittoria è più fiera?
«Non è una gara. È il titolo di Velista dell’anno 2009, su scala mondiale.
Mai nessuna italiana ci era arrivata».
Episodi di machismo?
«Più nel mondo diciamo normale che in quello sportivo. Dove comunque la donna parte a handicap, è più difficile farsi una famiglia. Io ci ho rimesso la mia vita personale».
Come la immaginava?
«Un uomo al fianco, un figlio da crescere. Ho quattro bellissimi nipoti, ma non è la stessa cosa».
Come si ritrova da vicepresidente del Coni?
«Faccio del mio meglio, come ho sempre cercato di fare. Mi manca l’adrenalina, ai livelli che solo lo sport sa dare. Non mi manca lo stress, grazie: questo non è un lavoro di tutto riposo, c’è un sacco di cose da fare, da decidere. Il lato positivo è che, grazie al mio incarico nella vela, resto a contatto con i giovani e questo pare aiuti a mantenersi giovani. E la gioventù sportiva è una bella gioventù».