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 2018  giugno 08 Venerdì calendario

Nell’inferno del Donbass nuova cortina di ferro tra Mosca e l’Europa

Di che cosa stiamo parlando

Nel febbraio 2014 ha avuto luogo in Ucraina la “Rivoluzione di piazza Maidan”, ovvero dei manifestanti europeisti (poi sostenuta anche da alcuni gruppi di estrema destra) contro l’allora presidente filorusso Viktor Yanukovich. Dopo la caduta di questi, è partita la rivolta militare dei gruppi separatisti ucraini legati alla Russia, che poco dopo ha annesso la Crimea coi tank e un referendum considerato illegale. Da allora, si combatte in Ucraina nelle regioni vicine alla Russia, soprattutto in quella del Donbass.


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AVDIIVKA ( UCRAINA ORIENTALE)
Non hanno chiuso occhio neanche stanotte, i soldati che difendono l’ultimo avamposto dell’esercito ucraino. Troppe granate, cadute troppo vicino alla loro trincea, scavata in un campo dove una volta crescevano girasoli. «L’inferno si scatena appena cala il sole, perché al buio le telecamere degli osservatori per la sicurezza e la cooperazione in Europa non riescono a filmare da dove partono i colpi», dice Yuri, la barba incolta e gli occhi gonfi di sonno, smontando e rimontando compulsivamente un vecchio kalashnikov. Dalla sua postazione, protetta soltanto da una mitragliatrice sovietica, le linee nemiche dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk distano meno di un chilometro. «Ma in caso di un’incursione terrestre degli indipendentisti e dei loro sostenitori russi possiamo sempre servirci di queste», aggiunge Yuri, indicando una mezza dozzina di bombe a mano disposte in bella vista, vicino a un vasetto di marmellata e a un pentolino per scaldare il tè.
Già, nel Donbass ancora si combatte aspramente, nonostante gli accordi di pace firmati l’11 febbraio 2015 a Minsk, dai presidenti Vladimir Putin e Petro Poroshenko assieme ad Angela Merkel e Francois Hollande. Allora, i quattro leader stabilirono una road-map per porre fine al conflitto scoppiato nel maggio di quattro anni fa in quest’aerea industriale nell’Ucraina orientale. Un conflitto che ha già fatto undicimila morti e che continua a falciare vite. Quotidianamente.
«Da Donetsk ci bersagliano con l’artiglieria pesante, anche con cannoni da 152 mm, infischiandosene degli accordi. La settimana scorsa un razzo ha decapitato un nostro soldato, e due giorni fa la scheggia di una granata ha ucciso una quindicenne nella vicina cittadina di Avdiivka», dice il colonnello Josef Venskovych, che m’accompagna in prima linea sul lato ucraino, l’unica visitabile poiché è ormai quasi impossibile ottenere il visto per la regione occupata dai separatisti. «Solo nel mese di maggio, sul nostro territorio sono caduti 1500 obici di un calibro non autorizzato, i nostri soldati sono perciò costretti a scavare rifugi sempre più profondi».
In questa guerra di posizione dove nessuno osa più conquistare un centimetro di terreno, i belligeranti continuano comunque a spararsi addosso per poi accusarsi reciprocamente di violare Minsk (ma per i prudenti osservatori dell’Osce sono i separatisti a farlo più di frequente). Ora, i combattimenti funestano la vita dei quasi quattro milioni di civili che ancora vivono nelle vicinanze degli oltre quattrocento chilometri di fronte. Secondo un rapporto Unicef del 2017, solo dal lato lealista 55mila bambini vivono a meno di 15 chilometri dal confine, in località bombardate almeno due volte la settimana. Come ad Avdiivka, per esempio, che da questa trincea si trova a soltanto dieci minuti di macchina, sia pure lungo una strada dove i razzi hanno aperto profonde voragini. In città, le ciminiere degli altiforni ancora sbuffano fumo, sebbene gli imponenti edifici residenziali di quello che fu il socialismo reale siano ovunque bucherellati da obici e proiettili.
Ad Avdiivka è rimasta più della metà dei suoi abitanti. «Perché non vado via? Perché qui c’è casa mia ed è la sola che posseggo», dice Olivia, 43 anni, infermiera del solo centro sanitario ancora aperto. La donna sostiene di essersi ormai abituata al frastuono delle bombe notturne.
Ma non sua figlia Liria, che ha sei anni. «Quando i vetri di casa cominciano a tremare, lei si sveglia e comincia a correre in corridoio urlando di paura. Allora la prendo e la porto nel mio letto, dove dopo pochi minuti si riaddormenta». Nel suo stesso edificio, incontro Maria, ottant’anni, vedova e senza figli, che si lamenta perché da tre inverni non riesce a scaldarsi come vorrebbe perché una bomba le ha distrutto due finestre, e non c’è nessuno in grado di ripararle. «Poco m’importa chi vinca la guerra, l’importante è che finisca il prima possibile», dice l’anziana.
Come spiegava Yuri, bisogna aspettare che annotti per capire con quanta violenza ancora si guerreggi nel Donbass. E puntuali, alle 9 della sera, cominciano a cadere le prime grosse granate sparate dalle linee avverse. Quando esplodono, la terra trema, e il soffio della deflagrazione urta dolorosamente i timpani. Poco dopo, ecco che da una batteria dell’esercito ucraino, a diversi chilometri da qui, parte la controffensiva. «Rispondiamo al fuoco per difendere le nostre posizioni e per non lasciarci sopraffare dal Cremlino che continua a fornire armi pesanti ai separatisti e a occupare militarmente la regione di un altro Stato impedendovi l’accesso agli osservatori internazionali», mi spiega il colonnello, tra una cannonata e l’altra. «Questa guerra di routine ha un prezzo altissimo per l’Ucraina perché ci costa il 20 per cento del Pil. E perché oltre ai tanti morti, ha già provocato 20mila feriti e 2 milioni di sfollati». Sono cifre che potrebbero contraddire chi sostiene che l’Urss si sia dissolta in modo incruento: un quarto di secolo dopo quel fatidico 1991, appena finita la rivoluzione di Maidan con cui nel 2014 gli ucraini spodestarono il presidente pro-russo Yanukovich, Mosca s’è prima annessa la Crimea e ha poi armato i separatisti del Donbass, scatenando una guerra di cui oggi nessuno vede l’epilogo.