il Giornale, 8 giugno 2018
Nel «Cantico dei cantici» il divino e l’eros si fondono
La Bibbia è il più possente romanzo erotico mai scritto. Il Libro è il regesto dei timori di un Dio sanguinario nel Primo Testamento pretende olocausti, perché quando il Potente ama qualcuno deve morire e che si fa sangue nel Nuovo Testamento in adorazione d’Israele, devoto fino alla passione impossibile alla sua creatura prediletta, l’uomo. Gelosia, tradimento, eros che disossa, pretesa di esclusività, vendetta, stratagemma della conquista, sessualità esposta o repressa: su questi temi con una radicalità più funesta delle Relazioni pericolose di Laclos e una ferocia più torbida dei corpi madidi di lussuria del Divin Marchese si gioca l’impalcatura della Bibbia. La metafora sessuale, a volte, toglie il fiato: come nel libro del profeta Osea, dove Israele è madre e moglie, fedifraga e puttana («Si tolga dal volto i marchi della prostituzione/ i graffi dell’adulterio dal seno/ altrimenti la spoglierò nuda/... la farò deserto», Os 2, 4-5), e Dio, marito paziente e Don Giovanni imperiale, fa di tutto per riconquistarla (distico divino: «Perciò, ecco, io la sedurrò/ la porterò nel deserto per parlare al suo cuore», Os 2, 16). Della Bibbia, in qualche modo, l’anello nuziale è il Cantico dei cantici, collocato, secondo la scansione cattolica, tra il libro dei Proverbi e Qoelet.
Tra il papiro della buona morale e della corretta dottrina e quello dell’annientamento, il vanto della vanità, sboccia il piccolo libro dell’amore, l’impero dell’eros, otto capitoli di atroce bellezza, dove la metafora sborda nella lussuria e Dio, innominato se non nell’impalpabile istante, Yah, nell’ultimo capitolo, quasi per caso, l’ombra di un’ombra è sostituito dal culto del sesso femminile, della benedetta vulva («Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa,/ sorgente chiusa, fontana sigillata», 4, 12). La radiosità erotica del Cantico «tutto il libretto è costituito da un inno all’amore dei due protagonisti e da descrizioni della bellezza del loro corpo... che sovente rasentano un conturbante verismo», così Dalmazio Colombo lo ha costantemente esposto all’espulsione dal canone. A chiudere la questione pesano le parole di Rabbi Aqiba al sinodo di Jamnia del 90 d.C.: «tutto il mondo non vale quanto il giorno nel quale è stato dato a Israele il Cantico dei cantici; tutti gli Scritti, in realtà, sono santi, ma il Cantico dei cantici è il più santo dei santi». Da lì, prende vigore la lettura allegorica del poemetto figura delle schermaglie d’amore tra Dio e il credente che diventa l’estasi dell’esperienza mistica, che è sempre sensibile, sessuale.
Libro che eccita e infiamma Dio chiede offerta di carne al credente il Cantico ha il privilegio di avere avuto svariate e variopinte traduzioni. Da quella giustamente dimenticata, e pure in napoletano dello scapigliato Achille Torelli, stampata a Napoli da F. Giannini & Figli nel 1892, a quella, nota e bella, di Guido Ceronetti (stampa Adelphi), che fa esplicitare al Cantico l’annuncio che «Dio è anche morte e annientamento, e mistero del proprio Vuoto senza fine». A dare l’avvio alle traduzioni d’autore’ fu il poligrafo e poliglotta Emilio Villa, che nel 1947, come Antico teatro ebraico, dà una intonazione pagana al testo («Il cantico era indubbiamente un testo liturgico legato al culto delle divinità della primavera rinascente, Adone e Tanit, cioè Tammus e Ishtar»). Tra le svariate versione poetiche ricordiamo quella di fra’ Agostino Venanzio Reali (pubblica Pazzini), di Giovanna Bemporad (Morcelliana) e quella, recentissima, di Elisabetta D’Ambrosio e Sergio Gandini (Cantico dei Cantici. Canto eccelso, Lemma Press 2018, pagg. 344, euro 17,50). La traduzione che tocca il cuore del problema, però, l’ha fatta Andrea Temporelli (Raffaelli, 2010): «c’è un movimento erotico nel disegno della salvezza... Questo è lo scandalo, questo è il paradosso che fonda il sacro: pretendere di farne un uso personale e scoprire nell’intimità violata del mistero la sua stessa inaccessibilità e la nostra conseguente condanna all’esilio». Come esercizio di eremitaggio da sé, forse, va inteso invece il Cantico dei Cantici secondo Andrea Ponso, appena stampato da il Saggiatore (pagg. 326, euro 24; prefazione di Marcello La Matina). Nelle intenzioni, infatti, Ponso, tra i poeti più importanti della sua generazione (nel 2011 Mondadori pubblica I ferri del mestiere), di ferrosa eloquenza, dilania il presuntuoso poetico per, dice lui, «adeguare la pratica di traduzione al suo problematico e sempre fuggevole oggetto». Ne vien fuori un tomo mostruoso, dove il Cantico in sé, gravemente annotato, misura 33 pagine, l’autore un po’ se la suona e se la canta («Questa necessità vitale di de-significare e risignificare ha caratteristiche anche di tipo rituale. E il procedimento di traduzione vorrebbe essere liturgico e rituale»), e in calce emerge il moloch di 240 pagine esegetiche titolo: Meditazione, corpo e desiderio. Una visione unificata. Dai padri al Cantico che allinea, commentandoli, alcuni maestri spirituali (Evagrio Pontico, Isacco di Ninive, Giovanni Climaco, Gregorio di Nissa, Gregorio Palamas).
La traduzione del poeta-biblista (alcune sue Letture bibliche sono edite da Fara, 2014) è un tentativo sontuoso, con la pretesa di essere miliare, anche se un po’ mi turbano certe parole gonfie di ruggine («rogge»; «flutto»; «mi indorò»; «io dormiente»; «rapisti me»). Il cunicolo misterioso del Cantico, ad ogni modo, versetto 6 capitolo 8, è reso in modo indimenticabile: «violento come la morte amore, aspra come Sheol gelosia: peste sua, febbre di fuoco». Eccolo, il sigillo del canto più conturbante della storia, la sua verità. Amore è violento come morte. Amore è morte. Quando Dio ama in eccesso, uccide; quando l’uomo ama totalmente, perde i connotati del nome, sacrifica gli alfabeti, muore.