il Giornale, 8 giugno 2018
Nel villaggio dei coloni il tempo si è fermato. Chipilo dopo 135 anni parla ancora veneto
«Qui tutti parlano in modo stranissimo», dice, Ignacio, autista della corriera che da Città del Messico percorre, in direzione sud-ovest, 67 chilometri fino a Chipilo de Francisco Javier Mina, paesino di 3493 anime che sembra una lunga firma. «La sopa (zuppa) la chiamano menestra e i frijoles sono fasui (fagioli)». E quando i suoi abitanti si salutano, non si dicono adios ma se vedòn (ci vediamo).
Nel mezzo dell’altopiano centrale del Messico, a 2139 metri d’altezza, nello stato di Puebla, esiste un antico paesino dove per le strade, i negozi e le case, i suoi abitanti non parlano né lo spagnolo, lingua ufficiale, né il náhuatl, l’antica lingua atzeca, riconosciuta dal governo messicano. Per un bizzarro quanto affascinante risvolto glottologico, vige il dialetto veneto (léngua Véneta), ma in una forma del XIX secolo, magicamente fermata nel tempo e nel luogo in cui nel 1882, trentotto famiglie venete attraversarono l’Atlantico in cerca di una vita migliore.
Erano di Segusino, Quero, Vas, Valdobbiadene, San Pietro di Barbozza, Cornuda, e Selva di Volpago nel Trevigiano e dei comuni bellunesi d’Alto del Piave e Feltre. C’era anche qualche lombardo e piemontese. Sull’altipiano, immenso e fertile, c’era abbondanza di terra per tutti. Anche per loro, poveri e analfabeti, con la voglia bruciante di coltivare e dedicarsi alle loro bestie. Era, così, nato il Véneto chipileño, a 10mila chilometri di distanza dall’Italia. Un’oasi di ricordi che durano da 135 anni, come il forte legame linguistico che dona una precisa identità sempre a rischio di scomparire, inglobata dalla lingua ufficiale.
Per i linguisti ciò che è successo qui è un fenomeno rarissimo. Tutti parlano e leggono perfettamente lo spagnolo, ma per comunicare tra di loro scelgono questo «isodialetto», rassicurante come il ventre materno, un párlar che non si è mai evoluto né si è fuso con la lingua del territorio. Come è normale avvenga. A Chipilo, invece, non c’è nessuna misiòt (mescolanza): o parli la lengua, o parli spagnolo perché sei furèst (forestiero). «Quando un veneto doc passa da queste parti, ci ride in faccia, prendendoci in giro perché sostiene che parliamo come i suoi bisnonni di Treviso o di Belluno», spiega a Il Giornale Adolfo Dossetti Mazzocco, 35 anni, medico, che difende la lengua dall’estinzione, assieme allo stesso sindaco Pedro Martini. «Sfortunatamente non possiamo insegnarla nelle scuole. Dovremmo organizzare corsi privati. Io ho imparato il veneto per via orale, da mio padre e dai miei nonni, come la maggior parte dei chipilegni. Ciò che faccio per proteggere la léngua è continuare a parlarla insegnandola ai giovani. Pubblicherò un libro per farla conoscere, voglio salvare le nostre tradizioni culturali». E gastronomiche, molto forti e presenti. A Chipilo le taquerias si contano sulle dita di una mano, se volete mangiare messicano, tornate a Città del Messico, qui servono merlùso in saór e tórta fregolota con la polenta bianca al posto del pane, ottima anche a colazione nel latte. Come una volta.
I cognomi Berra, Bortolotti, Dossetti, Galeazzo riempiono gli elenchi telefonici come a Verona. Cognomi e nomi si sono salvati da quelli dei conquistadores perché i chipilegni-segusini da un secolo e mezzo, per necessità o semplice senso di appartenenza si sposano tra di loro. E anche i discendenti lo fanno. Perché qui si sentono tutti una grande famiglia. «Dalla parte di mio padre erano ventidue fratelli, tutti sposati con venete. Poi alle vedove e ai vedovi ci pensava il pàroco a risposarli tra di loro. Per mantenere vivo un tochéto di Veneto lanciato còmo un saséto oltre l’Atlantico», racconta Rosa, anziana signora, che mi grida «Tè me ga capìo...?». I forestieri, a meno che non siano italiani, non sono i benvenuti a Chipilo, ma poi, il buon cuore veneto accoglie tutti. «Ma devi parlar la léngua», ride scherzando Pedro Martini, il sindaco che ricorda come «fino al 1982, centenario della fondazione, i veneti del Messico non ebbero nessun contatto con l’Italia. A partire da quell’anno, il municipio di Segusino iniziò a organizzare scambi tra le famiglie di entrambi i paesi».
Lo scorso anno, si è celebrato il 25 gennaio del 1917, centenario dell’impresa, quando una dozzina di veneto-messicani guidati da Giacomo Berra Zancaner, trinceratisi nella collina sovrastante Chipilo, tennero testa alle truppe del rivoluzionario Emiliano Zapata. E li sconfissero, cacciandoli a schioppettate e sassaiole. Quella collina è ora Monte Grappa. Dalla sua sommità una statua della Madonna, incastonata in un pezzo di roccia strappato all’originale massiccio veneto, guarda il paesino. Una placca rende omaggio ai caduti anti-Zapata e a quelli della Prima guerra mondiale.
Giù, nel borgo il tempo si è fermato, ma la vita no. Tutto s’è mantenuto intatto con i tratti urbanistici delle cittadine venete. Un’ariosa piazza centrale, palazzi ben intonacati, inserti in marmo, il marmeto de Venesia. Anche le persone conservano i tratti somatici del Nordest. Molti sono biondi e con gli occhi chiari in una terra di meticci. Il 90% di loro in Italia non c’è mai stato.
Da qualche anno questo paesino incantato è minacciato da un’ondata massiccia d’immigrazione da Venezuela, Colombia e Guatemala che potrebbe cancellare le sue radici veneto-italiane. Le autorità messicane preferiscono parcheggiare e mantenere nei paesini come Chipilo questa nuova ondata di poveri che risalgono dal Sudamerica. «È una seria minaccia all’identità e alla storia di Chipilo», ci spiega al telefono dall’Italia Roberto Ciampetti, presidente del Consiglio del Veneto per la Lega. «Le autorità messicane, a cui ho scritto, devono preservare questa peculiarità unica al mondo». Ciampetti di recente ha scritto anche ai responsabili Unesco e all’ambasciatore messicano in Italia per sensibilizzarli.
L’aggressività dei social, le tv in spagnolo, i pochi turisti veneto-italiani e la mancanza di insegnamento pubblico stanno cancellando la lengua che resiste da 135 anni. «Il dialetto sopravviverà, anche se le autorità messicane lo rifiutano», spiega il sindaco Martini. Questi ostinati e orgogliosi veneti d’oltreoceano non s’arrendono. E per le strade, molto spesso si sente un bel «Ma va ’n mona!».