Corriere della Sera, 8 giugno 2018
Dal Ragusano al Piemonte, gli ottanta ghetti per migranti
Ad Acate, nel ragusano, schiavi ragazzini dormono in stalle cadenti accanto alle serre dove all’alba vanno a coltivare primizie: sono minorenni invisibili, non censiti. Le donne, sole, rischiano lo stupro ogni notte. Nei campi dell’Agro Pontino i sikh vengono imbottiti di metanfetamine per spaccarsi la schiena 15 ore al giorno sotto un caporale indiano come loro, agli ordini di un padrone locale. Persino in Piemonte, a Saluzzo, dove non c’è caporalato, si sgobba «in grigio» (le ore di lavoro, non pagate, sono molte più di quelle del contratto dei florovivaisti) ed era nato un ghetto di migranti subsahariani, a Foro Boario, ora rimpiazzato da un «dormitorio per stagionali» protetto tra molte polemiche dal filo spinato, per «ragioni di sicurezza».
Un rapporto che la Caritas pubblicherà in autunno su 18 diocesi in terre di disagio dà conto di 4.950 lavoratori senza diritti né garanzie, registrati nei suoi database per il progetto Presidio: maghrebini di più antica immigrazione, romeni, nuovi richiedenti asilo, rom, clandestini, dai più integrati ai più smarriti, circa 30 anni di età media, 25 euro di paga al giorno (di cui una metà torna però ai caporali per cibo, alloggio e spostamenti). Secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil, sono 80 gli «epicentri italiani dello sfruttamento», 27 i distretti agricoli coinvolti, centomila i lavoratori «in condizioni di grave vulnerabilità».
«Vivono tutti situazioni sanitarie e abitative terribili, ma le sfaccettature sono mille», spiega Piera Campanella, la professoressa di Urbino che sta coordinando la ricerca Caritas. Già: sono molti i modi di pronunciare in italiano la parola schiavitù. Molte le faglie nel nostro Stato di diritto, come quella che ha risucchiato Soumaila Sacko, il sindacalista maliano freddato il 6 giugno con una fucilata in testa nella Calabria dei moti di Rosarno di pochi anni fa. «Se Soumaila fosse stato italiano, nessuno avrebbe avuto timore nel denunciare il fatto come un’esecuzione mafiosa», sostiene Marco Omizzolo, sociologo che da sempre indaga sui crimini nascosti nelle filiere agricole.
Tra scheletri di roulotte e tendopoli, ammassi di anime e cartone, lamiere e rabbie, dalla Puglia (Capitanata, alto barese e Nardò) alla Campania (casertano e piana del Sele), dalla Calabria (Sibari e piana di Gioia Tauro) al Ragusano e al trapanese in Sicilia, da Metaponto e alto Bradano in Basilicata fino al Lazio e poi al Nord (fino al Trentino), crescono i ghetti d’Italia, terre di capoccia e braccianti a zero garanzie, di pomodori e aranceti, talvolta di ‘ndrangheta e camorra: dove i nostri contadini liberati dalla riforma agraria non annegano nella crisi solo perché si issano sulle spalle degli ultimi arrivati. Tutti lo sanno e tacciono, finché non ci scappa il morto.
Sicché questa storia può anche essere raccontata come l’intervallo tra due omicidi. Ventinove anni prima di Soumaila Sacko venne assassinato con impressionanti analogie Jerry Masslo, rifugiato politico sudafricano: protestava difendendo i suoi compagni contro i sistemi imposti dai caporali nello slum campano di Villa Literno, poi ridotto in cenere da un incendio cinque anni più tardi.
Leonardo Palmisano, il ricercatore pugliese che ha pubblicato «Ghetto italia» con Yvan Sagnet, leader del primo sciopero di braccianti stranieri in Italia (campagne di Nardò, 2011), scrive di «ghetti a pagamento», in cui tutto ha un prezzo e niente è dato per scontato, «nemmeno un medico in caso di bisogno», e chiama in causa il silenzio delle istituzioni locali e il nostro apparato produttivo, fino alle multinazionali dell’industria agroalimentare che fingono di non vedere: «Si tratta di un complesso sistema criminale in cui a rimetterci sono solo i braccianti, costretti a pagare cifre impensabili per vivere stipati in baraccopoli insalubri, lontano da qualsiasi forma di civiltà». I migranti sono dunque l’ultimo salvagente della nostra agricoltura, vittime che pagano per essere sfruttate e che non denunciano (quasi) mai gli sfruttatori. «La crisi colpisce soprattutto la filiera degli imprenditori più piccoli, incapaci di fare rete», spiega la professoressa Campanella: «In Sicilia ci hanno detto: “qua sono tutti solisti”... e questi solisti finiscono poi per sfruttare i più poveri» (nel ragusano 2 su 3 sono senza contratto). Sono storie circolari, queste, che tornano, sospese in un tempo che non passa mai.
Il ghetto di San Ferdinando, «casa» di Soumaila, era stato sgomberato, si è ripopolato, ora è una polveriera dopo la morte del sindacalista. Rignano, il «Gran Ghetto», è stato a lungo una distopia realizzata, oggetto perfino di fumetti sull’orrore dello sfruttamento: svuotato in parte, in parte ripopolato, in parte trasferito a Borgo Mezzanone, sulla «Pista», che adesso ospita cinquemila braccianti neri ed è la nuova «hit» del degrado, frontiera di una disperazione che sta inglobando persino il Cara, il centro d’accoglienza regolare, appena oltre la bucherellata rete di recinzione. «Quando dici “smantello un ghetto” ma non dai alloggio a quelli che ci vivono, puoi star certo che se lo ricostruiscono piano piano», sospira Vincenzo Limosano, che con «Medici in camper» gira per gli slum pugliesi cercando di alleviare dolori e sofferenze.
Oliviero Forti, direttore dell’Ufficio Migranti Caritas, allarga la prospettiva: «Ci sono contesti nei quali trovi datori di lavoro non consapevoli di commettere un abuso sottopagando un migrante, la crisi è economica ma prima ancora culturale». Per questo, forse, sul «Mulino», il sociologo Domenico Perrotta auspicava nel 2014 la sindacalizzazione dei braccianti, insomma un Di Vittorio nero. Quattro anni dopo, è ancora guerra tra ultimi e penultimi. E il movimento bracciantile resta un sogno: che – ancora – può costare la vita a chi s’illude di realizzarlo.