Corriere della Sera, 8 giugno 2018
Per il governo Conte un esordio in tono minore
Il 65° governo della Repubblica ha giurato 89 giorni dopo le elezioni. Le difficoltà e oscillazioni della gestazione sono state molte. È presieduto da un membro dell’odiata élite e non si differenzia molto per numero di componenti dai due precedenti esecutivi. Mentre l’età media è solo di poco più alta di quella della popolazione, la rappresentanza di genere è fortemente squilibrata: le persone di sesso femminile sono più della metà della popolazione italiana, ma il governo ha solo un quarto di donne (nel nuovo governo spagnolo siedono undici donne e sei uomini). Se l’equilibrio tra Nord, Centro e Sud è rispettato, non lo è quello tra regioni: i ministri nati in Lombardia e Veneto fanno la parte del leone, mentre regioni importanti come Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna e Toscana non sono rappresentate. Le forze politiche presenti con pesi diversi nel governo (ma un terzo è composto di persone non «schierate») sono unite dal «populismo» in due diverse versioni e stili, un po’ come in Grecia.
L’esordio è stato in tono minore. Alle Camere è stato presentato, più che un programma di governo, un diligente ma incompleto elenco di buoni propositi, una sorta di indice senza proposte concrete, che sottovaluta problemi gravi (al debito pubblico sono dedicate solo due righe). Il governo non era ancora nel pieno della sua attività ed aveva già fatto una inutile «gaffe» nei confronti della Tunisia e un pericoloso strappo nei confronti dei nostri alleati della Nato.
La nuova compagine governativa nasce in un Parlamento con opposizioni deboli. Il Partito democratico è nel punto più basso della lunga crisi iniziata con il fallimento del referendum del dicembre 2016. È diviso e si presenta all’elettorato come una società che abbia perduto la propria «ragione sociale». Forza Italia non riesce a far presa sull’elettorato conservatore. Questa afonia delle opposizioni, che potrebbe apparire un vantaggio, è, invece, un inconveniente per la stessa maggioranza, perché la democrazia consiste anche nella dialettica maggioranza- opposizione (come ha osservato – questa volta trovando i toni giusti – il presidente del Consiglio nelle dichiarazioni programmatiche) e, in un certo senso, è questa stessa dialettica che sorregge un governo e gli impedisce di fare errori. Ciò è tanto più importante in quanto la maggioranza parlamentare non è maggioranza nel Paese. Se si considerano anche gli astenuti, si tratta del 35 per cento degli aventi diritto al voto. Quindi, il governo può parlare a nome di un terzo del popolo.
Che cosa ci aspettiamo, ora, dal nuovo esecutivo, che cosa raccomandiamo vivamente ai nuovi governanti, che sono alla loro prima prova? Tento di fare un piccolo elenco. Provino, innanzitutto, a parlare con una voce sola. Se Lega e M5S continueranno la campagna elettorale (ogni anno c’è una elezione), stando al governo e contemporaneamente mobilitando la piazza, saranno maggiori le probabilità che ambiguità, duplicità, contraddizioni, vengano fuori. Per le due forze politiche che sono parte del governo sarà una prova ancor più difficile di quella superata (male) da altri governi della Repubblica, perché l’alleanza costituita al centro è programmaticamente diversa da quella della periferia, dove la Lega è alleata con Forza Italia, che in Parlamento è all’opposizione.
Cerchino di dotarsi di quelle che i francesi chiamano «amministrazioni di stato maggiore», degli «staff», senza i quali non si governa uno Stato (il governo Renzi fece l’errore di sottovalutare questo problema). Non diventino prigionieri delle critiche ai grandi servitori dello Stato (offesi dalla letteratura sulla casta), ma sappiano distinguere i competenti dai vecchi volponi e dai giovani inesperti. E principalmente trovino il coraggio di sopprimere lo «spoils system» all’italiana, che ha fatto tanto danno, da un quarto di secolo, alle nostre Amministrazioni pubbliche, diminuendone l’imparzialità (nella bozza di «contratto per il governo del cambiamento», c’era il punto, poi caduto nella versione finale).
Non facciano l’errore di coltivare davvero l’idea che «lo Stato siamo noi» (non ricordiamo al capo politico del M5S chi l’ha detto per primo, per evitare che si monti la testa). Il governo è solo una (piccola) parte dello Stato, del quale fanno parte l’ordine giudiziario, le autorità indipendenti, 3 milioni di dipendenti pubblici che debbono agire in modo imparziale, il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e molti altri organismi che non dipendono dal governo.
Sappiano che il governo del Paese è anche (parte del) governo dell’Europa: quando votiamo per le elezioni nazionali, scegliamo anche chi parteciperà alle riunioni del «condominio» europeo, dal quale dobbiamo farci ascoltare, ma evitando di imputare all’Unione Europea tutto ciò che non ci piace. Se ci sono vincoli europei alla spesa pubblica in Italia, è perché anche noi l’abbiamo voluto, approvandoli nel nostro interesse, come fece Ulisse con le sirene.