Ci sono buoni giocatori?
«Quelli c’erano anche prima. È cambiata la politica sportiva, adesso c’è un’osmosi totale tra squadra e federazione».
E perché l’osmosi tra lei e l’Africa è così naturale?
«Io penso che ci si debba sempre calare nella cultura e nell’ambiente, ma restando se stessi, con le proprie idee e i propri principi. Il Renard della Zambia e quello che ha lavorato in Cina sono due persone diverse, inevitabile, anche se la pasta rimane la stessa».
Come ci si adatta in mondi diversi?
«Devi conoscere il passato. Sapere che il calcio dello Zambia non è per esempio lo stesso della Costa d’Avorio, non lo sono i calciatori, non lo è il loro ego. E poi l’Africa nera ha delle particolarità diverse da quella magrebina. Io di mio porto un quadro e una struttura.
Poi c’è bisogno che più persone vi aderiscano».
È un luogo comune dire “l’Africa”?
«Certo. Va declinato al plurale, bisogna dire Les Afriques. Ho lavorato in paesi francofoni, anglofoni o dove si parla portoghese: ci sono similitudini e peculiarità. Del resto anche in Europa l’Italia non è la Svezia, no?».
Quali sono i cliché sull’Africa più fasulli?
«Si ha l’impressione che sia povera, che non ci siano luoghi moderni. I pregiudizi europei sono radicali e spesso sbagliati. In Marocco c’è tutto quello che potresti trovare anche in Europa. È un paese in grande sviluppo, ci sono infrastrutture di alto livello».
Perché Renard funziona solo in Africa?
«In Francia non ho avuto successo per certe situazioni in cui mi sono trovato. Arrivai a Sochaux con una squadra messa male, a nove punti dalla zona salvezza, e retrocessi all’ultima giornata. Un po’ come De Zerbi al Benevento: è forse un fallito, per non essersi salvato? A Lille ho fatto tredici partite e mi hanno mandato via: come Marcelo Bielsa…».
Mai più in Europa?
«Sono soddisfatto della mia storia, amo molto allenare le nazionali. Se capitasse un club perché no, ma è appassionante cercare e assemblare giocatori uno diverso dall’altro e in poco tempo».
Ha una chiave per riuscirci?
«Il collettivo è l’istituzione superiore a tutto tranne che alla nazione, in questo caso il Marocco viene davanti a tutti, all’allenatore e ai giocatori. Adoro la Juve perché vedo Chiellini, Barzagli e prima Buffon motivarsi e motivare gli altri con il loro spirito guerriero: quello è il mio modello ideale. Non sono i migliori presi uno per uno, ma insieme lo diventano».
È vero che il limite delle nazionali africane è l’incapacità di essere un collettivo?
«Non è un problema dei giocatori, ma di quello che c’è attorno. Io sono riuscito a isolare le mie squadre, mi prendono per fare quello che so fare: stare sul campo ad allenare, con un presidente che fa solo il presidente. Non posso lavorare con le idee degli altri».
Come ha convinto i suoi a fare gruppo?
«C’erano ragazzi troppo sicuri di giocare. Ho detto loro che non sarebbe più stato il caso. Non è che se vieni da un club europeo hai il diritto di essere titolare. Adesso c’è uno spirito molto buono ed è la cosa di cui sono più fiero».
Pensa di aver cambiato il calcio africano?
«Non ho questa pretesa. Mi sono solo adattato alla specificità di questo continente e dei paesi in cui ho lavorato. Ho incontrato gente e giocatori favolosi. L’importante è saper diventare africani. Adesso ho saputo diventare marocchino».
Le viene facile?
«Prima di capire un paese, si fanno tanti errori. In Marocco per esempio volevo fare come in Algeria: comunicare poco, proteggermi in qualche modo ma ho ottenuto l’effetto contrario. Poi ci siamo spiegati e adesso va molto meglio».
È la cultura tattica un altro limite del calcio africano?
«È un aspetto che deve sicuramente progredire molto. Ma Benatia non ha problemi tatticamente. Casomai quelli che si sono formati in Africa hanno delle lacune, ma le cose vanno sempre meglio».
Cosa deve ancora migliorare?
«Le infrastrutture per avere campionati più organizzati e centri di formazione efficienti. Ci sono talmente tanti talenti che non potete neanche immaginare, gente che gioca a piedi nudi in posti incredibili. Se solo avessero a disposizione dei campi veri… Una volta con lo Zambia andammo per una selezione quasi al confine con l’Angola, dove l’erba non era tagliata e vennero a falciarla dei prigionieri con il machete. Ci sono ragazzi che amano il calcio e vorrebbero solo avere un’opportunità, se non vai a fare una selezione in un posto così, quando mai potrebbero averla? È importante avere una squadra di giocatori locali tra i 17 e i 20 anni, questo avevo cercato di fare in Zambia. È così che ho trovato Patson Daka, adesso è al Red Bull Salisburgo e diventerà un grande giocatore».
Era nelle sue ambizioni una carriera come questa?
«Proprio no, il mio sogno era lavorare in Francia e ci avevo già quasi rinunciato, visto che avevo aperto un’impresa di pulizie in Savoia. Ma il proprio destino non lo si può scegliere e il mio ha voluto portarmi in Africa. È viaggiando che ho imparato a viaggiare».
Lei passa per un duro.
«Ma so anche ascoltare. Penso sia necessario instaurare una certa disciplina, il messaggio che si dà a qualcuno deve riguardare tutti».
Qual è il suo calcio perfetto?
«Ho un’idea precisa di calcio ma servono i giocatori per realizzarla.
Quando vedevo il Napoli di Sarri pressare alto, recuperare il pallone e giocarlo come lo giocavano loro, ecco, quello è un calcio meraviglioso. Sono anche stato stregato da Sacchi e in generale seguo molto il calcio italiano: la mia squadra del cuore è la Juve. Platini, Deschamps e Zidane mi hanno segnato. Ogni francese è per forza un po’ juventino».
Qual è la sua definizione di tattica?
«È la disciplina sul terreno.
Ciascuno deve sapere cosa fare e che è là per compensare gli errori degli altri e per ridurre gli spazi».
L’Africa è pronta per vincere il Mondiale?
«Vorrei proprio che succedesse o almeno che si arrivasse in semifinale, così qualcuno cambierebbe finalmente opinione.
Attenzione all’Egitto, ma anche alla Nigeria. Il Senegal ha giocatori di grande qualità. Penso che tutte le cinque squadre africane a questi Mondiali possano fare una sorpresa. Quale non lo so, ma è possibile».
Può farla il suo Marocco?
«Non abbiamo stelle. Ma abbiamo Benatia. E anche Ziyech, che è giovane e può diventare un campione».
Benatia era in rotta con la nazionale, è stato lei a ripescarlo.
«Adesso è il capitano, il padrone sul terreno. Il suo percorso doveva imporgli di diventare il leader. È un agonista, sa trasmettere la cultura tattica ed è innamorato del football».
L’impressione è che sia riottoso a parlar d’Africa: vero?
«Potrei parlarne per ore ma nessuno capirebbe, perché gli europei hanno uno sguardo sull’Africa che mi disturba. Troppi cliché, come dire che a Napoli c’è la mafia e basta. Non si può sostenere che un intero continente non sia civilizzato. Non ci sono delle generalità, ma delle specificità.
Non si può mettere tutto nello stresso calderone».
Molti calciatori con passaporto anche europeo scelgono la loro nazionale d’origine: lo fanno per cuore o per opportunismo?
«Ci sono delle eccezioni, ma il più delle volte è il cuore a guidarli. E li comprendo: se io potessi scegliere, giocherei per la Savoia: è la mia storia».