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 2018  giugno 07 Giovedì calendario

Milo Rau: «Il teatro? Come quando scopri chi è Babbo Natale ma ci credi lo stesso»


Come il cinema dei fratelli Dardenne o di Ken Loach, anche il teatro di Milo Rau ha un rapporto vivo con il presente. Combatte battaglie, sfonda la porta delle ipocrisie e i suoi spettacoli sono pieni di tensione morale, anche quando sono storie ruvide, ingombranti. Come il magistrale Five easy piecesdove bambini recitano un celebre caso di pedofilia, o Breivik’s statement che dà voce al terrorista di Utoya. Spettacoli che hanno cuore e carne, ma al tempo stesso ruotano intorno al nodo del teatro, dove verità e menzogna, realtà e finzione si inseguono con uno stile personalissimo.
Oggi Rau è il regista europeo più amato, seguito, controverso: lavora in Germania, Francia, dirige il Théâtre National di Gand dove ha già fatto scalpore perché cercava un attore con esperienza nella Jihad. Poche settimane fa, il prestigioso Kunsten di Bruxelles gli ha affidato l’inaugurazione del festival con il nuovissimo The Repetition — Histoire( s) du Theatre ( 1), che il Festival Romaeuropa porterà il 10 e 11 novembre al Teatro Vascello, e nel maggio 2019 arriverà al Piccolo di Milano.
Ma, a conferma della sua fama, Milo Rau sarà anche il 16 e 17 giugno al Festival delle Colline Torinesi con Empire dedicato ai viaggi migranti verso l’Europa e nell’autunno 2019 il Teatro di Roma produrrà con Matera un suo Vangelo secondo Matteo da Pasolini.
The Repetition parla del “crimine” e di come si può rappresentarlo in scena. «Sono partito da un caso di cronaca molto popolare in Belgio», racconta Rau. «La sera del 22 aprile 2012, davanti a un locale gay di Liegi, un ragazzo, Ihsane Jarfi, parla con altri giovani in una Polo grigia. Due settimane dopo viene trovato ucciso barbaramente». The Repetition ricrea quell’assassinio come se fosse una prova teatrale con attori professionisti e non (bravissimi sono Sara De Bosschere, Sébastien Foucault, Johan Leysen e Tom Adjibi, Fabian Leenders e Suzy Cocco).
Milo, ma perché l’ha sottotitolato “Histoire(s) du théâtre (1)”: che c’entra la storia del teatro con un delitto di Liegi?
«La tragedia è l’origine del teatro e in ogni tragedia c’è un crimine.
Del delitto di Liegi mi aveva colpito la banalità. Non c’era premeditazione, ragione, senso.
Proprio come Edipo che incontra un signore, non sa che è suo padre, non vuole cambiare strada, lo uccide: una tragedia senza causa».
La banalità del male?
«Sì, il crimine capitale. Siamo quindi partiti da alcune domande: qual è l’inizio di un crimine? Quando capisci che sei un assassino, o una vittima? Come si può ricreare in scena il male e ripeterlo tutte le sere? Si può recitare un assassinio? Io credo che tutto il mio teatro, e il teatro in generale, si ponga queste domande per portare gli spettatori a guardare, capire, sentire emozioni.
Ecco perché parlo di “Storia del teatro”: The Repetition è il primo capitolo. Voglio farne dieci».
Si è già dato risposte?
«Secondo me è come quando a 10 anni sai benissimo che Babbo Natale è tuo padre travestito, ma ci credi lo stesso. Il teatro deve ritrovare quella condizione di verità, di quando sei talmente preso da una storia, da un’emozione, che quello che vedi è per te vero. Secondo me il teatro deve essere realista, non nel senso di rappresentare il reale, ma perché la rappresentazione stessa è reale, sul palco si crea una nuova realtà».
Queste riflessioni c’entrano con il “Manifesto” che ha presentato da direttore del teatro di Gand?
Di cosa si tratta?
«È come il Dogma 95 di Lars von Trier. Sono regole, dieci regole tecniche che chi lavora a Gand deve sottoscrivere, artisti come Faustin Linyekula, Luk Perceval, Miet Warlop, Alain Platel, Johan Simons... quella che chiamano la nuova fabbrica fiamminga.
Le regole? Ad esempio, che in compagnia devono esserci almeno due non professionisti, o almeno due lingue diverse, che in tournée tra le tappe ci sia una zona di guerra o di conflitto, che le prove sono aperte... Il teatro ha bisogno di un nuovo inizio, più aperto al mondo. Negli ultimi 30 anni si è un po’ perso, le cose sono diventate astruse, non emotive, e la gente ha smesso di capirlo.
I miei spettacoli, che a mio avviso sono piuttosto complessi, hanno un successo popolare, perché sono diretti, anche nelle emozioni. Chissà, forse fra qualche anno mi darò anch’io al misticismo di Romeo Castellucci, ma al momento sono su un’altra strada. Per fare uno spettacolo, per esempio, io viaggio, faccio lunghe ricerche. Per Congo Tribunal, il film sui sei milioni di morti nel Congo orientale che il Romaeuropa Festival presenterà l’8 novembre, ho incontrato parenti delle vittime, assassini, studiosi sugli Stati Uniti, l’Europea, la Cina e lo sfruttamento delle risorse in quel paese».
E il “Vangelo” che farà col Teatro di Roma?
«Amo Pasolini perché è semplice e complesso e adoro il suo modo di lavorare con attori professionisti e non. Farò anch’io qualcosa di simile con i rifugiati.
Il mio riferimento però sarà più la Bibbia del film. Per l’autunno sto preparando Mystic Lamb, l’Agnello mistico ispirato alla pala d’altare dei fratelli Van Eyck nella cattedrale di San Bavone a Gand».
È lo spettacolo per il quale cercava un attore che avesse combattuto nell’Isis.
«Mi sono scusato, non volevo certo dare pulpito ai terroristi.
È che i personaggi biblici di quel polittico sono ancora vivi e sono estremisti protestanti, cattolici, islamici...».
Lei è cattolico?
«Mia madre e mio nonno erano italiani, quindi sì. Come dice una battuta di The Repetition: “Se sei italiano, sei cattolico o comunista”».
Per chi non la conosce, che storia ha lei?
«Ho 41 anni, sono svizzero, vivo a Colonia, sposato con due figli.
Ho studiato a Parigi sociologia con Pierre Bourdieu, poi a Berlino regia con Peter Zadek.
Ma il vero motivo di questi miei spostamenti erano prima una ragazza messicana poi una di Berlino. Insomma, l’amore».