Corriere della Sera, 7 giugno 2018
«Io, l’unico italiano al Mondiale per gli schiavi neri e per mio padre». Intervista ad Alfred Gomis
Alfred Gomis, portiere della Spal e del Senegal. Lo sa che lei è l’unico italiano che andrà al Mondiale?
«Non ci avevo pensato, ma è così. Porterò in valigia anche il tricolore, con orgoglio: mi sento italiano, per educazione e formazione, non solo sportiva. E sarò sempre grato all’Italia: sono arrivato quando avevo 3 anni, sono cresciuto prima a Cuneo e poi a Torino, l’ho girata per giocare. E quest’anno, anche se un po’ in ritardo, ho giocato la mia prima stagione in serie A, centrando una storica salvezza: meglio di qualsiasi sogno».
Lei ha fatto uno stage con l’Under 20 di Di Biagio. Facile pensare che poi abbia scelto il Senegal per avere più possibilità di giocare. O invece c’è dell’altro?
«Ci sono le mie radici, che non ho dimenticato. La scorsa estate ho fatto un viaggio in Senegal, dove mancavo da 15 anni: è stata la goccia definitiva, perché ho rivisto i luoghi della mia infanzia. E altri molto speciali».
Le va di raccontare quali?
«Sono stato sull’isola di Gorée, a largo di Dakar. Lì c’è la “porta del non ritorno”, attraverso la quale venivano fatti passare gli schiavi destinati all’America: chi non era in grado di partire, per motivi di salute, veniva buttato a mare. Ho visto una stanza in cui venivano ammassate 200-300 persone, grande come una camera da letto al giorno d’oggi. Un colpo al cuore dietro l’altro».
Ha rivisto anche i suoi famigliari?
«Mia nonna, che parla un dialetto che non capisco. Ma è stato bello passare del tempo con lei. Mio padre era morto da poco, sono andato a vedere se la sua tomba era sistemata come si deve e a fare due chiacchiere con lui. Lì è scattato qualcosa. Ho scelto il Senegal per ricordare papà: quello che ha fatto per me e per i miei fratelli, tutti portieri anche loro, è stato pazzesco. Non eravamo certo benestanti e lui ha fatto sacrifici e rinunce enormi per realizzare il nostro sogno. E dire che io in porta da bambino ci sono finito controvoglia».
In Senegal il pallone è vissuto come una religione?
«Sono pazzi per il calcio. È una valvola di sfogo fondamentale per tutta la comunità. Quando ci siamo qualificati per la Russia, a 16 anni dall’ultima volta, era impossibile girare per le strade, tutte intasate. Per noi non è un peso, ma una responsabilità verso la gente, quello sì».
Il girone del Senegal, con Colombia, Giappone e Polonia, sembra molto equilibrato. Che ambizioni avete?
«Quella di divertirci, anche perché solo divertendoci possiamo giocare come sappiamo, con il cuore. E battere avversari che sulla carta sono più forti di noi. Dobbiamo tenere la testa sgombra».
Avere Koulibaly in difesa non è male, non trova?
«Altroché, è tra i migliori al mondo nel suo ruolo, lo ha detto anche Maradona. È una sicurezza, anche in impostazione. Ma ci sono tanti giocatori con grande esperienza europea come Mané del Liverpool, oltre a Keità e Niang che in Italia sono conosciuti. Siamo competitivi».
Ma lei sarà titolare?
«È ancora un punto interrogativo. Sono l’ultimo arrivato ma nelle amichevoli che ci restano contro Croazia e Corea del Sud spero di confermare quello che ho fatto vedere nelle ultime partite».
Lo sa che Buffon scelse la porta perché amava un portiere africano a Italia ’90?
«Sì, N’Kono del Camerun. Portieri africani forti ce ne sono stati altri, però ci sono sempre dei pregiudizi: si pensa che siamo molto forti fisicamente, ma non altrettanto dal punto di vista tecnico e mentale. Io sono di scuola italiana e non vedo differenze».
È un pregiudizio col quale lei ha dovuto confrontarsi?
«Sicuramente sì. E il fatto che io sia solo il primo portiere africano a giocare in A – a parte mio fratello Lys che ci ha giocato 40’ col Torino nel 2013 – non è normale».
Che ne pensa della fascia azzurra a Mario Balotelli?
«Per me il capitano è quello la cui parola pesa. Detto questo sono favorevole a dare la fascia a Mario. Che così sarà consapevole di rappresentare non più soltanto se stesso o un club, ma l’Italia intera».
Lei ha detto che in Italia più che razzismo c’è ignoranza, conferma?
«Sì. Quando entro in un luogo mi guardano in un certo modo, poi quando mi sentono parlare molto bene italiano è diverso. Sicuramente l’Italia non è un Paese razzista, ma la situazione politica attuale può portare una persona comune ad aumentare i propri pregiudizi razzisti».
Segni particolari fuori dal campo?
«Non ho l’abbonamento alla pay tv, perché il calcio mi piace viverlo, non guardarlo. Ascolto musica, guardo serie tv, leggo libri».
Cosa sta leggendo?
«Le mie stelle nere di Lilian Thuram. Lui è un punto di riferimento fondamentale nella lotta all’ignoranza».