Corriere della Sera, 7 giugno 2018
Se la Terza Repubblica ripesca vecchi burocrati
Roberto Calderoli, spiccio, afferrò un lanciafiamme e incenerì sette scatoloni. Foto d’effetto, risultati zero. Giuseppe Conte, burocraticamente, parla dell’urgenza di una «deburocratizzazione». Ma sempre lì si torna: per aggredire la corruzione occorre aggredire la sua alleata più pericolosa: la cattiva burocrazia. Con l’aiuto di chi? Non c’è scampo: dei burocrati. Ma come sceglierli? Ecco il problema.
«È giusto che ci sia lo spoils system perché dopo cinque anni si creano incrostazioni – ha spiegato giorni fa Luigi Di Maio —. Il cambiamento parte anche dalla macchina burocratica». Fatto sta che non c’è giorno in cui non si accendano polemiche o ironie intorno a questa o quella ipotesi di segretari generali, capi di gabinetto o dell’ufficio legislativo via via già scelti in passato come uomini di fiducia da questo o quel ministro senza puzze al naso per questo o quel colore. Da Alfonso Celotto a Salvo Nastasi, da Roberto Garofoli ad altri ancora.
Con un carico di dubbi in più davanti al recupero, nella Terza Repubblica nuova di zecca, non solo di Vito Cozzoli (subito infilzato da Carlo Calenda che l’aveva rimosso e già capo di gabinetto di Federica Guidi quando i grillini postavano «#DimetteteviTutti») ma di Vincenzo Fortunato, giudice amministrativo a lungo potentissimo ai vertici del gabinetto dell’Economia, descritto come «il capo di gabinetto più pagato della storia repubblicana» e «al servizio» sia dei governi berlusconiani sia di ministri anti-berlusconiani come Antonio Di Pietro. Il quale, a chi gli chiedeva perché l’avesse preso, rispondeva: «Mi serve: è il più bravo».
E qui siamo al nocciolo: piaccia o no chi ha contribuito a costruire negli anni un intricatissimo labirinto di leggi e leggine (Sabino Cassese ha parlato di un sistema di regole caotico come «un sacco di ossa buttate alla rinfusa») è poi l’unico ad essere in grado di trovare la via d’uscita. Lo spiegava già Max Weber a cavallo tra ’800 e ’900: «Ogni burocrazia s’adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Più son riservate, più chi le detiene conta.
Oggi, se possibile, ancora di più: «La pochezza tecnica del personale politico che ha governato il Paese», scriveva nel 2013 il costituzionalista Roberto Bin in Quaderni costituzionali, «ha lasciato il campo aperto al dilagare di un ceto semi-tecnico composto da consiglieri di Stato, alti dirigenti dell’amministrazione e della Ragioneria, magistrati ordinari e contabili, che si manifesta in tutta la sua sub-cultura centralista e autoreferenziale. Mai come negli ultimi anni essa emerge senza pudore».
E guai a tentare la prova di forza, come fece Matteo Renzi tuonando che «quella contro la burocrazia è la madre di tutte le battaglie» e piazzando a Palazzo Chigi come capo del Dipartimento affari giuridici e legislativi Antonella Manzione, capo dei vigili di Firenze. La risposta arrivò, polemiche a parte, col «Codice degli appalti», che avrebbe dovuto «far ripartire l’Italia»: conteneva 181 errori su 220 articoli. Infilati probabilmente apposta da qualche manina misteriosa. Un disastro. Tutto da rifare, con una Gazzetta ufficiale dedicata a correggere gli svarioni. Messaggio: ecco cosa può succedere se non ti appoggi agli esperti.
Spiegano Roberto Mania e Marco Panara nel saggio Nomenklatura che «i consiglieri di Stato sono, quasi sempre, i capi di gabinetto, i responsabili degli uffici legislativi di almeno un terzo dei ministeri». Sono loro «quelli che scrivono davvero le leggi, gli emendamenti e i sub-emendamenti; i regolamenti di ogni taglia; i codicilli semi-invisibili che rimandano a una norma e poi a un’altra ancora nel gioco perverso di una produzione normativa elefantiaca che serve anche a difendere e proteggere il potere pervasivo della burocrazia».
Risultato? Rileggiamo Alberto Alesina e Francesco Giavazzi: «La gestione di un ministero è una questione complessa, che richiede dimestichezza con il bilancio dello Stato e il diritto amministrativo, e soprattutto buoni rapporti con la burocrazia degli altri ministeri. I dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti e hanno tutto l’interesse a mantenerlo». Hanno anche l’interesse, proseguivano, «a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco e complicato possibile in modo da essere i soli a poterli far funzionare. Così quando arriva un nuovo ministro, animato dalle migliori intenzioni (…) a ogni sua proposta la burocrazia oppone ostacoli che appaiono incomprensibili, ma che i dirigenti affermano essere insormontabili». Conclusione: «Spaventato, il ministro finisce per affidarsi a chi nel ministero c’è da tempo. È l’inizio della fine delle riforme».
Tema: riusciranno i «neo populisti» a convincere i più alti dirigenti della burocrazia, gli unici a poter metterci le mani, a riformare se stessi e il sistema? Auguri.