Corriere della Sera, 7 giugno 2018
Tasse & ricchi, pagare meno (a volte) serve
La flat tax è giusta per tutti, anche se chi guadagna di più paga meno tasse. Per quanto possa scandalizzare, in un Paese abituato a disprezzare in pubblico la ricchezza come sterco del demonio e ad adorarla in privato all’insaputa del Fisco, la frase di Matteo Salvini non è campata in aria. È suonata certamente blasfema per tutti coloro che, alla Robin Hood, credono che la giustizia sociale sia togliere ai ricchi per dare ai poveri. E di sicuro tra questi ci sono moltissimi elettori dei Cinquestelle, che ieri si saranno chiesti «con chi ci siamo messi?». Eppure è almeno dagli anni 80, da quando l’età dell’oro socialdemocratica lasciò la scena a Reagan e Thatcher, che molti economisti sostengono l’efficacia del trickle down, e cioè dello «sgocciolamento», teoria secondo la quale se riempi un bicchiere (la società) di acqua (la ricchezza), prima o poi ne sgocciolerà un po’ verso il basso (i poveri), e tutti staranno meglio.
Non sempre le cose sono andate così, soprattutto da quando il turbo capitalismo finanziario si è bevuto fino all’ultima goccia. Però da molto tempo chiunque governi sa che il «giusto» e l’«ingiusto» in un sistema fiscale non sono categorie morali, ma vanno valutate in base agli effetti che producono sulla crescita. Perché per poter redistribuire la ricchezza bisogna prima produrla. Un grande socialdemocratico, Olof Palme, diceva: «Noi non combattiamo la ricchezza, ma la povertà». E John Kennedy, anche lui con una metafora idrica, sosteneva che «quando sale la marea tutte le barche galleggiano».
La grande recessione ha certamente dato un colpo all’ottimismo reaganiano dei tagli fiscali. Ma non ha per niente invertito né interrotto un processo che va avanti da 30 anni in tutto l’Occidente: la riduzione del numero e del peso delle aliquote. La flat tax è il punto estremo di questo processo: alcuni ci arrivano, altri possono fermarsi prima. Ma che la direzione di marcia sia quella ci sono pochi dubbi.
Ciò che è discutibile nel discorso di Salvini non è dunque l’affermazione, ma l’argomento che usa. Il leader leghista dice: lasciamo più soldi in tasca a chi guadagna di più, così spende di più e si produce di più. Come accade con le Ferrari: più ricchi se le comprano, più operai lavorano. Tutto ciò è auspicabile, ma non certo. Per esempio: se per finanziare il taglio fiscale si fa debito, può scattare il malefico «effetto Ricardo» (dal nome del grande economista) per cui la gente capisce che lo Stato prima o poi quei soldi dovrà richiederteli indietro, e invece di spenderli li mette sotto il materasso (è successo in parte con gli 80 euro di Renzi). Dunque è innanzitutto essenziale finanziare la riforma con tagli equivalenti di spesa, altrimenti è molto difficile che si finanzi da sola.
L’argomento più forte non è però quello keynesiano, dal lato della domanda, che forse inconsapevolmente usa Salvini (è pur sempre un ex «comunista padano»), ma quello dal lato dell’offerta: la riforma fiscale deve incentivare chi guadagna poco a guadagnare di più. Se so che il Fisco non si mangia tutto l’incremento di reddito che riesco a realizzare, se non corro il rischio di far scattare un’aliquota superiore, se dall’inizio dell’anno posso sapere con certezza quanto pagherò, allora magari prenderò un lavoro in più, farò uno straordinario, accetterò un part time. Questo vale soprattutto per i cosiddetti «secondi percettori» del reddito in famiglia, cioè in Italia quasi sempre le donne, le più penalizzate sul mercato del lavoro.
E qui arriviamo al diavolo, che fa le pentole dimenticando i coperchi. Salvini non è il primo in Italia ad aver avuto l’idea di tagliare le tasse. Ci aveva già pensato un signore che lui ben conosce a proporre tre aliquote nello studio di Vespa. Perché non riuscì? Perché il diavolo è nei dettagli. Il più importante dei quali lo segnala Nicola Rossi nel suo libro Flat tax: è essenziale che la mano che prende i soldi dai cittadini, il Fisco, e quella che li dà, il welfare, sappiano l’una cosa fa l’altra, altrimenti un sacco di gente cade e si fa male. Per questo le riforme frettolose fanno gattini ciechi: pensate alle migliaia di esodati della Fornero; oppure ai 400 mila italiani che hanno dovuto restituire gli 80 euro perché nel frattempo erano diventati più poveri, troppo poveri per averne diritto. La riforma tributaria di Visentini fu varata nel 1971, ma la commissione di studio aveva cominciato i suoi lavori nel 1962. Si può certo fare più in fretta, ma magari si può cominciare a studiare.
Il sistema degli incentivi e delle deduzioni deve essere perciò finemente sintonizzato. Dopo Reagan e Thatcher arrivarono Clinton e Blair. Non rialzarono le aliquote, ma aggiunsero misure come il working family tax credit. E cioè uno sconto fiscale alle famiglie in cui lavorano marito e moglie, per rendere conveniente avere due redditi. Con il progetto giallo-verde infatti, che è una dual tax basata sul reddito familiare, si rischia di scoraggiare il lavoro femminile, perché sommando i due redditi si può saltare nell’aliquota superiore.
Se non suonasse troppo di sinistra, si sarebbe insomma tentati di suggerire a Salvini lo slogan «arricchitevi», il grido con cui Bucharin lanciò la Nuova politica economica in Russia. Qualche ricco in più che paga le tasse ci farebbe anche comodo, visto che solo l’1% dei contribuenti dichiara oggi più di 100mila euro. E il Fisco fa pure finta di crederci.