il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2018
Prima gli ungheresi
È difficile parlare di Salvini senza cascare nei suoi giochetti. Che sono due. 1) Occupare ogni giorno tg, talk show, giornali e siti per far credere che al governo ci sia solo lui e solo lui vegli insonne sui problemi degli italiani. 2) Attirare su di sé tutte le critiche del vecchio establishment – un misto di giuste obiezioni, pregiudizi iperbolici e processi alle intenzioni – per rafforzare nella gente la convinzione di cui al punto 1. Il miglior modo di parlare di lui è quello di sfidarlo alla prova dei fatti, dopo 25 anni di comoda predicazione da Cazzaro Verde che insegnava agli altri quel che dovevano fare. Ora le chiacchiere stanno a zero: come ha detto Di Maio, “ora lo Stato siamo noi”. Non nel senso di “L’Etat c’est moi” del Re Sole (come hanno volutamente equivocato i soliti tromboni), ma nel senso che gli anti-sistema ora rappresentano il sistema e, fischiandolo, fischiano se stessi. Salvini, come Conte e Di Maio, annunciano sull’immigrazione cinque obiettivi: ridurre gli sbarchi (e quindi i morti in mare), velocizzare l’esame delle richieste d’asilo, intensificare i rimpatri di chi non ne ha diritto, ridiscutere gli accordi di Dublino per un’equa ripartizione fra i Paesi Ue, statalizzare regione per regione l’accoglienza sottraendola al business privato che tanti scandali e ruberie ha causato.
Al netto della solita insulsa propaganda, tipo “la pacchia è finita” (i migranti, anche irregolari, esclusi i pochi che riescono a guadagnare bene delinquendo, fanno vite d’inferno), sono tutti propositi condivisibili, legali e costituzionali. La riduzione degli sbarchi, già avviata da Minniti, si ottiene continuandone le politiche di collaborazione con gli Stati del Nordafrica e facendo rispettare il codice d’autoregolamentazione per le Ong. Il primo ad annunciare una chiusura dei porti italiani, dinanzi al menefreghismo degli altri Paesi mediterranei, fu un anno fa Minniti, fra i gridolini di giubilo dei commentatori per la “svolta” legalitaria del Pd che finalmente batteva i pugni in Europa. Quindi, ora che Salvini riannuncia la stessa cosa, sarebbe auspicabile un minimo di coerenza: fascismo e xenofobia non c’entrano. Esami delle richieste d’asilo, rimpatrii e accoglienza pubblica dipendono dall’efficienza dello Stato, oltreché dai costi altissimi e dai trattati con gli Stati di provenienza (per ora 4, Tunisia in primis: pessima idea dichiararle guerra, innescando un incidente diplomatico, fra l’altro sulla fake news del boom di “galeotti” che non trova riscontro nelle statistiche). La revisione di Dublino dipende dal peso politico e dall’abilità diplomatica del nuovo governo in Europa.
Bisogna costruire alleanze, sperando di avere la maggioranza per cambiare una regola demenziale che proprio il centrodestra FI-Lega sottoscrisse a suo tempo senza neppur sapere cosa firmava. Il presupposto per le alleanze è sapere con chi conviene farle. In base al nostro interesse nazionale (“prima gli italiani”, no?), non al colore politico dei partner. Salvini, per evidenti affinità ideologiche, vuol partire da Viktor Orbán, il premier ungherese di estrema destra che peraltro fa parte del Ppe (con B. e la Merkel) e non del gruppo lepen-leghista europeo. I due si sono già sentiti per “cambiare insieme l’Europa”. Ora, Orbán sa benissimo come vuol cambiare la Ue: tenendo fuori i migranti anzitutto dall’Ungheria e poi dai suoi alleati nel fronte Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Ma sorge il dubbio che Salvini non ne abbia la più pallida idea: altrimenti non sceglierebbe come partner privilegiato chi vuole lasciare i migranti ai paesi di primo approdo, qual è appunto l’Italia (insieme alla Grecia) e quale non è (più) l’Ungheria dopo l’attenuarsi del flusso siriano-afghano e il muro eretto al confine serbo. L’Ungheria, non affacciando sul mare, non ha mai visto un barcone. Infatti fu proprio Orbán, con tutti gli alleati di Visegrad, a sfanculare l’Ue che proponeva di aiutare Italia e Grecia suddividendo i migranti per quote, Paese per Paese. Il tutto – nota Franco Venturini sul Corriere – dopo che il fronte Visegrad era stato imbottito dall’Ue di miliardi per la “coesione” sottratti anche all’Italia.
Per questo, per il nostro interesse nazionale e non solo perché Orbán è brutto, sporco e cattivo, dovremmo tenerci a debita distanza da lui. E cercare sponde da tutt’altra parte: nei governi che, o per paura di nuovi boom dei partiti anti-Ue (la Merkel), o per affaccio al Mediterraneo e vicinanza all’Italia (Francia, Spagna, Grecia e Austria), sono più sensibili al tema degli sbarchi. L’altroieri, mentre Salvini era al Senato per la fiducia, gli altri ministri degli Interni europei hanno sancito il fallimento della riforma di Dublino. Giustamente l’Italia, come pure Francia e Germania, ha votato contro: i veti incrociati degli euro-egoisti avrebbero fatto ricadere comunque su Italia e Grecia quasi tutto il peso dell’accoglienza (anche Gentiloni, ben prima di Salvini, era ben poco entusiasta del negoziato). Ma sono stati proprio l’Ungheria di Orbán e la Polonia, con quel marpione di Macron, ad affossare ancora una volta le quote. Senza le quali, gl’immigrati restano un problema esclusivamente italiano e greco. Ora si dice che, con l’ausilio dell’Austria euroscettica, prossima presidente semestrale, l’Ue chiuderà un occhio sui metodi scelti dall’Italia per risolvere la questione. E tollerare persino i respingimenti di massa in mare evocati da Salvini. Se è a questi che pensa il ministro dell’Interno, se li levi dalla testa: la Corte di Strasburgo li ha già definiti illegali. Quindi l’Italia resterebbe sola, magari col resto d’Europa che sospende la libera circolazione di Schengen e ci chiude fuori con i migranti dentro. A quel punto Salvini e Orbán che faranno? Strilleranno “prima gli ungheresi”?