la Repubblica, 6 giugno 2018
Ora il box office è roba da dinosauri
«Se sento la pressione? Dopo un successo come quello di Jurassic World portare a casa un miliardo di dollari è considerato un fallimento...». Colin Trevorrow, regista del film sul ritorno dei dinosauri che nel 2015 ha fatto l’impresa – quinto incasso nella storia – per il seguito Il regno distrutto ha lasciato la regia per gestire la macchina da produttore esecutivo. Ad aumentare il clima di tensione alla vigilia dell’uscita (da noi domani) del film, la mancanza totale di recensioni (la Universal ha imposto l’embargo totale) e il tonfo stellare di Han Solo che si è consumato nelle ultime settimane. Un disastro tutt’altro che imprevedibile – il cambio in corsa di regia, l’uscita troppo vicina agli Ultimi Jedi – ma che suscita grande preoccupazione: kolossal che costano centinaia di milioni tra produzione e marketing sono obbligati al successo. E anche se George Lucas aveva immaginato un contorno di gadget già nel lontano ’76 per Star Wars, quella di Jurassic Park è stata concepita fin dal ’93 come una saga-giocattolo.
Il delicato incarico di gestire l’universo espanso del merchandising spetta a Trevorrow: «Rispetto agli anni Novanta molto è cambiato, tutto è più tecnologico, immersivo.
E anche più legato alla realtà scientifica. Oggi puoi costruire alla playstation o nella realtà virtuale il tuo parco giurassico, interagire con i dinosauri. C’è anche un gioco come Pokemon Go in cui insegui i dinosauri nelle città, nelle strade...
speriamo di non causare incidenti.
È parte dell’esperienza di Jurassic World e il mio è un approccio tutt’altro che cinico».
Il punto di forza sono i dinosauri, sempre più realistici. Nel film sono stati costruiti puntando più sull’animatronica che sul digitale e sono stati moltiplicati: tirannosauri, stegosauri, pterodattili e i nuovi Indomitus Rex e Indorator (coperto da parti dorate, sembra una versione lussuosa, “gold”, come certi smartphone...) da collezionare.
Pronta la cornice, a dipingere il quadro è stato chiamato Juan Antonio Bayona. «Volevamo una svolta dark, passare da una gigantesca catastrofe a un finale claustrofobico, così abbiamo pensato al regista spagnolo dell’horror The Orphanage e di The impossible», racconta Trevorrow.
«Lavorare con Steven Spielberg produttore esecutivo è stato realizzare un sogno», dice Bayona.
«Questo mio Jurassic è un omaggio a tanti suoi film, da I predatori dell’arca perduta a A. I. Intelligenza artificiale, nel modo in cui raccontiamo il rapporto tra gli umani e gli “altri”. E poi ho guardato al cinema classico di Buster Keaton, a Vertigo di Hitchcock, a Nosferatu: lo sguardo di Indoraptor è ispirato alle foto di soldati traumatizzati della Prima guerra mondiale, gli artigli ricordano quelli di un vampiro».
C’è una scena, verso il finale, che coinvolge una ragazzina e arriva dritta dagli incubi infantili di Bayona, maturati dopo aver visto per caso il Dracula di John Badham con Frank Langella del ’79.
«Avevo cinque anni e quel vampiro che entrava dalla finestra mi tolse il sonno per un mese.
Quell’esperienza è stata una di quelle che mi ha spinto a fare cinema. Forse questo mio film metterà paura ai piccoli, ma lo considero uno spavento creativo».
Nel capitolo quinto c’è una svolta nello schema, spiega l’addestratore di velociraptor Chris Pratt affiancato dalla manager Bryce Dallas Howard: «Finora si invitava il pubblico a vedere sull’isola lo spettacolo dei dinosauri, poi qualcosa andava puntualmente storto. Stavolta abbiamo invertito la prospettiva: i dinosauri vanno protetti dall’eruzione del vulcano a Isla Nublar. I veri nemici non sono gli animali preistorici, ma piuttosto l’uso spregiudicato della tecnologia e l’avidità degli uomini».
Il dilemma morale è affidato a un cammeo di Jeff Goldblum, un monologo tratto da Michael Crichton sulla responsabilità di aver riportato in vita creature estinte e le imprevedibili conseguenze, compresa la possibilità di un mondo giurassico. «L’idea», dice Trevorrow, che tornerà per il prossimo film, «è che con l’addio a Isla Nublar si chiude il passato e si guarda al futuro: può succedere tutto. Credo si possano prendere rischi anche in un film prodotto da una major». Da questo punto di vista, aggiunge Bayona, «molto si deve alle serie tv, che hanno cambiato per sempre la narrazione: solo poco tempo fa sarebbe stato inimmaginabile far morire Han Solo...».