La Stampa, 6 giugno 2018
«Siamo formiche intossicate dalla cultura». Intervista a Daniel Dennett
Intossicati dalla genetica, ubriachi di biologia, travolti dalle neuroscienze, non ci resta che rivolgerci alla filosofia. E disintossicarci con Daniel Dennett. Così originale e a tratti profetico, perché il professore della Tufts University riesce a smussare le asperità di filosofia e scienza, ottenendo come in una reazione chimica qualcosa di inatteso. Ammirato da alcuni, criticato da altri, comunque al centro di furiose discussioni, questo «qualcosa» è una rivisitazione della «philosophia naturalis» del 600, alle origini della modernità. E infatti non ci vuole molto perché Dennett si diverta a evocare giganti: Cartesio, Spinoza e Leibnitz.
«Erano tutti grandi scienziati e poi filosofi», mi dice. E aggiunge pensoso: «Nel XIX secolo i miei colleghi hanno preso le distanze dalla scienza e non è stato uno sviluppo positivo. Ma ora siamo tornati sul binario giusto. Penso alla fisica, all’epistemologia, alla filosofia della mente e anche all’etica. I filosofi lavorano in partnership con gli scienziati. Non possono affidarsi unicamente alla loro disciplina, altrimenti si condannano all’isolamento».Strumenti per pensareDennett, che oggi a Cagliari inaugurerà la 10ma edizione del festival «Leggendo Metropolitano», è l’opposto di queste tristi monadi: le sue idee – che definisce «strumenti per pensare» e che sono diventate il titolo di un ponderoso saggio – si proiettano in ogni direzione, dall’evoluzionismo all’Intelligenza Artificiale, insinuandosi nel problema dei problemi: che cos’è la mente e che cos’è la coscienza? E infatti il suo libro più recente, «Dai batteri a Bach», pubblicato da Raffaello Cortina Editore, esplora ciò che si sa e ciò che si suppone dei neuroni, facendo scontrare ricerche di laboratorio, esperimenti mentali e provocazioni intellettuali. Con l’entusiasmo di chi è certo che il futuro è legato a queste invasioni di campo. «Gli scienziati al top, impegnati ai limiti della conoscenza, autentici pionieri, hanno scoperto che devono affrontare le grandi questioni, le stesse indagate dai filosofi – osserva Dennett -. E, sebbene siano una minoranza, sanno che, se non collaborano con noi, rischiano di autoingannarsi. E quindi di contraddirsi».Così il filosofo che ama assorbire le più diverse discipline e provocare con le sue sintesi afferra il tema intrattabile per eccellenza, la coscienza. «Assomiglia a un trucco di magia, ma non c’è nulla di soprannaturale. È ciò che definisco l’illusione dell’utente». E ricorre alla metafora dello smartphone. «Non sappiamo che cosa accade all’interno, nei miliardi di atomi dei circuiti, e tuttavia a noi basta sapere che, quando tocchiamo lo schermo, otteniamo ciò di cui abbiamo bisogno. È ciò che volevano i progettisti: un’illusione “user friendly”. È una grande idea, inventata miliardi di anni fa dalla Natura e riproposta dai computer scientists».L’errore di tanti neuroscienziati – ammonisce – è invece restare intrappolati nel miraggio del «Teatro Cartesiano», dove il dualismo si replica all’infinito, con la biologia del cervello contrapposta alla metafisica della mente. La ricerca ossessiva del dettaglio, anatomico o molecolare, e l’inseguimento esasperante dei processi cerebrali genera quell’autoinganno cognitivo che Dennett vuole smontare e proporre come oggetto di riflessione per il futuro. «Nonostante i successi della ricerca, ci si dimentica la questione fondamentale». La quale – dice – «è spiegare i talenti tanto del produttore quanto del consumatore». In altre parole, dei neuroni e dell’Io. Conclusione: non esiste un punto d’arrivo della coscienza, un indirizzo a cui bussare, semmai una pluralità di manifestazioni, con diverse intensità. Un flusso, a cui è estranea qualunque idea – ormai in frantumi – di sostanza.Geni e memiIl vecchio Sé non c’è più e Dennett rappresenta la svolta con il benevolo shock di una doppia immagine: un termitaio australiano e la Sagrada Familia di Gaudì. Incredibilmente simili per look e funzioni, si distinguono negli esiti. Se formiche e neuroni creano senza avere consapevolezza di sé – in un processo dal basso in alto («bottom-up») definito come «competenza senza comprensione» -, la coscienza sgorga gradualmente, alimentando un altro tipo di sapere, dall’alto in basso («top-down»). In gioco ci sono sia l’evoluzione naturale sia l’evoluzione culturale. Accanto ai geni, che veicolano le istruzioni biologiche, si affermano i memi, portatori dell’informazione culturale. Sono loro a infettarci «generazione dopo generazione – spiega Dennett – e a de-darwinizzarci». Icona del processo è il linguaggio: «I nostri antenati non sapevano di parlare, anche se utilizzavano le prime parole. Erano come bambini, che un po’ alla volta hanno dato vita a forme di cultura sempre più avanzate».L’esempio del momento è l’Intelligenza Artificiale. «Quasi tutto ciò che possiamo fare con la mente può essere fatto meglio dalle macchine. Ma c’è una differenza tra l’affidarsi a uno strumento e a un vero collega. È bene mantenerla, questa differenza, e quindi esercitare il controllo. Ecco perché la filosofia conta».