La Stampa, 6 giugno 2018
Luca Parmitano: «Guardando il mondo dall’oblò ho fotografato cose che nessun terrestre vedrà mai»
Merletti di coste, sbuffi di nubi, rughe di monti. La Terra vista dal cielo sembra opera di un demiurgo che, prima di riposarsi al settimo giorno, s’è molto sbizzarrito con forme e colori. Una bellezza sublime e algida, che fa apparire l’uomo ancora più superfluo nella sua chiassosa tracotanza. Luca Parmitano, 41 anni, tenente colonnello dell’Aeronautica militare, il primo astronauta italiano a passeggiare nello spazio, e il primo a dirigere la Stazione spaziale internazionale, ha fotografato durante la missione Volare dell’Asi ciò che si vede dall’oblò. E che nessun terrestre mai vedrà. Sabato sarà alla Venaria per inaugurare la mostra «Il senso dello spazio»
, dove le sue immagini sono accostate a quelle di Luigi Ghirri, il grande fotografo reggiano che invece guardò il mondo dal bordo della via Emilia. Nella serata, che apre la Milanesiana, anche un incontro tra «parole e musica» con Stefano Bollani e Nicola Lagioia. Parmitano, lei è stato il primo astronauta italiano a passeggiare nello spazio. Che sensazione si prova?«È molto difficile esprimerla, perché le parole della nostra quotidianità non sono adatte a raccontare ciò che succede in una situazione così straordinaria. È unʼesperienza fisica di fatica, con tutte le difficoltà del muoversi nello scafandro pressurizzato; cʼè lʼemozione dovuta alla bellezza della visione; e da qualche parte, nel profondo, cʼè anche la soddisfazione di aver realizzato un sogno che mi portavo dentro da sempre».È stato protagonista di un incidente: mentre usciva nello spazio il casco si è riempito dʼacqua. Ha avuto paura?«La paura nello spazio cʼè e deve esserci sempre. Da un punto di vista prettamente fisiologico il cuore batte più velocemente, lʼadrenalina nel sangue ci rende capaci di essere più forti, il cervello si attiva per pensare in maniera più rapida. È un campanello d’allarme positivo: se riusciamo a controllarla ci aiuta a uscire da situazioni pericolose. Il nostro addestramento durato anni e anni serve ad abbassare la soglia della paura in modo che non si trasformi in panico».
Cʼè una tecnica per dominare la paura?«Esiste una sola tecnica: si chiama conoscenza. La paura è la stanza buia in cui i bambini non vogliono entrare perché ignorano i mostri e gli ostacoli nascosti. È figlia dell’ignoranza. Basta accendere la luce e si dissolve. Per un astronauta la conoscenza è addestramento».Che cosa cerca di cogliere con le fotografie che ha scattato nello spazio?«Faccio prima un passo indietro importante, per dire che non sono un fotografo e non ho la passione della fotografia. Ho sempre preferito osservare il mondo con i miei occhi e non attraverso un filtro. Se vado in un posto, mi lascio coinvolgere dallʼemozione, più che pretendere di fissarlo in un’immagine. Lo spazio, però, non è un luogo qualsiasi. Ho vissuto un’esperienza talmente straordinaria che non potevo non condividere. Le fotografie non sono souvenir, ma il bisogno di mostrare ai miei simili una bellezza pura e assoluta che quasi nessuno ha la possibilità di assaporare». Scesi dal cielo, cambia lo sguardo sulle cose?«Spero di non perdere mai la sensazione di beatitudine che ho provato, rientrando, per ciò che abbiamo sulla Terra. Ho goduto della pioggia, del freddo, del caldo, di fenomeni che talvolta paiono molesti, ma rappresentano la perfezione di una natura che si manifesta nel divenire. Come il cielo, o il mare, che non sono mai uguali a sé stessi. Nei sei mesi in orbita ti accorgi che tante cose che diamo per scontate non lo sono affatto. La stazione è un ambiente completamente artificiale, ci ricorda quanto noi siamo esseri naturali, immersi nell’ambiente in cui ci siamo evoluti, del quale siamo componenti, partecipi e anche responsabili». Da piccolo pensava che avrebbe fatto lʼastronauta?«Sognavo e continuo a sognare… la mia generazione è stata molto influenzata da quella precedente, come è giusto che sia. Io, per esempio, non ho visto lo sbarco sulla Luna, vissuto lʼesperienza della Luna, ma è come se avessi vissuto quell’esperienza e l’età d’oro della ricerca spaziale attraverso i miei genitori. La loro emozione, la loro memoria, è diventata parte del nostro immaginario collettivo, del nostro desiderio, delle nostre aspirazioni. Che si sono poi alimentati con i primi voli dello Shuttle, la nuova conquista spaziale, quella dellʼorbita bassa terrestre». Nei suoi sogni da bambino c’era anche la fantascienza letteraria?«Sono un vorace lettore di fantascienza fin dalla più tenera età, oltreché un piacere la considero una fonte d’ispirazione perché ciò che un tempo era fantastico è poi diventato scienza, tecnologia e realtà. Sono cresciuto con Verne e Asimov, uno dei maggiori scrittori del ’900». Si riesce a leggere lassù, in assenza di gravità?«Ho letto due libri che erano stati lasciati a bordo della stazione da equipaggi precedenti, Il Maestro e Margherita di Bulgakov e Cronaca di una morte annunciata di García Márquez. Ne centellinavo pochi capitoli per volta al mattino, mentre facevo colazione, prima di iniziare le attività. Perché sapevo che il tempo in orbita non era “mio”: ma apparteneva a chi mi ha portato lassù, le Agenzie spaziali italiana ed europea, e i cittadini che rappresentavo».Nello spazio ci si sente più vicini a un Dio?«Credo che lʼistinto di guardare verso l’alto quando si pensa alla divinità sia qualcosa di molto atavico. Perché lʼuniverso, lo spazio, il cielo ci appaiono infiniti. Ma credo che la divinità vada ricercata piuttosto nellʼinfinitamente piccolo, altrettanto sconosciuto. L’essere divino è una visione interiore, dobbiamo trovarlo dentro di noi, non fuori dall’oblò della stazione».Lassù si è mai chiesto se siamo soli nell’universo?«Dal punto di vista matematico, le probabilità che esistano altre forme di vita nell’infinita grandezza del cosmo sono alte. Credo che esistano altri esseri intelligenti, senzienti, e altre civiltà. Ma sono altresì certo che eventuali contatti siano impossibili. Ci sono limiti incontrovertibili della scienza, in particolare quello della velocità della luce, che al momento ci precludono “incontri” con civiltà aliene».