La Stampa, 6 giugno 2018
Nelle lettere di Giuseppe Verdi, l’antipopulista da bar sport
«Credono che voglia dire mangiare, bere a crepapancia e non lavorare». Non è la descrizione del reddito di cittadinanza prossimo venturo, ma della Repubblica come i primi agitatori socialisti la dipingevano ai contadini. La lettera è datata 24 giugno 1882, firmata da un Giuseppe Verdi pessimista come al solito: «Non vale gran cosa questa società! dicono (e lo dicono i più tristi). D’accordo! Ma quella che verrà sarà migliore?». Bella domanda. Dalle lettere esce un Verdi antipopulista, specie dal carteggio appena pubblicato con Giuseppe Piroli, bussetano come lui, deputato, senatore e vicino di banco del maestro a Palazzo Carignano durante la prima legislatura del Regno d’Italia. Rigorosissimo con se stesso, Verdi lo era anche con gli altri. Voleva i conti in ordine, il bilancio in pareggio, le spese sotto controllo, gli impegni rispettati. È nota la sua adorazione per Cavour, uno dei due uomini che venerava (l’altro era Manzoni) nonostante gli avesse giocato il tiro mancino di convincerlo a candidarsi alla Camera. E così Verdi fu eletto deputato di Borgo San Donnino, oggi Fidenza, vincendo il ballottaggio con 339 voti contro 206, numeri da parlamentarie grilline (ma all’epoca il suffragio era censitario, e ristrettissimo). Meno nota la simpatia di Verdi per Quintino Sella, l’uomo della tassa sul macinato, la Fornero dell’epoca, diciamo un Monti in redingote invece che in loden: «Dispero quando vedo un uomo di altissimo ingegno, un animo forte, di altissimo sapere, e di una onestà a tutta prova come il Sella, deriso, calunniato, insultato, dispero, ripeto, del mio paese. I Sinistri distruggeranno l’Italia» (a Opprandino Arrivabene, 27 maggio 1881). Però capisce che una questione sociale c’è, e bisogna intervenire (lui lo faceva, e di tasca sua): «La miseria nelle classi povere è grande, grande, grandissima; e se non ci sarà una Provvidenza sia dall’Alto o dal basso succederanno guai gravissimi».Talvolta poi, sì, Verdi fa un po’ di bar Sport, banalità da dibattito televisivo: «Se io fossi il Governo non penserei tanto al partito, al bianco, al rosso, al nero, penserei al pane da mangiare...». E, ovvio, si stava meglio quando si stava peggio: «Quando l’Italia era divisa in tanti piccoli Stati, tutti quasi avevano le Finanze in ottimo stato; ed ora che siamo uniti siamo rovinati». Qualunquista, però, no. Nel 1885, c’è un incidente alla Camera fra il ministro degli Esteri, Di Robilant, e un deputato dell’opposizione di Destra (nel ’76 i «Sinistri» sono andati al potere). E lui: «Ma infine, perché uno è Ministro, non è mica detto che debba soffrire gli insulti d’un qualumque (sic) che gli passa davanti e gli getta in muso “Vergognatevi!”», e dire che da allora si è passati ai vaffa.L’Italia è fatta, e l’ha fatta anche lui, ma non gli piace. E allora si capisce che Verdi è il tipico liberale italiano, un moderato di buonsenso condannato a un’eterna minoranza nella Patria della demagogia. E ad amare appassionatamente il suo Paese senza averne alcuna stima.