il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2018
Confindustria lascia il buco del Sole 24 Ore agli altri e si tiene il suo tesoretto
Nove milioni dei 30 milioni messi da Confindustria nelle casse del suo Sole 24 Ore si sono volatilizzati in 30 giorni. È la prima ferita provocata all’associazione degli industriali dal suo unico asset industriale, il Sole 24 Ore che da 10 anni è in crisi. Crisi tamponata a novembre 2017 con l’aumento di capitale da 50 milioni che ha evitato di portare i libri in tribunale. Quei 30 milioni, messi da Confindustria con almeno un anno di ritardo rispetto all’emergenza, sono diventati in un mese 21 milioni. È il bilancio 2017 di Confindustria a rivelarlo: al 31 dicembre sono stati svalutati 9 milioni sui 30 apportati a fine novembre. Collocati a 96 centesimi per azione, i titoli del Sole sono subito scesi a 88 centesimi e oggi stazionano a quota 65. Un 32 per cento di perdita.
Chi si aspettava che bastasse ripristinare il patrimonio del gruppo editoriale, in negativo per 12 milioni già nel settembre del 2016 e precipitato a -63 milioni poco prima dell’aumento di capitale, è andato deluso. Da quando l’azienda Sole nell’autunno 2016 evidenziò il venir meno del capitale, Confindustria ha ripetuto che avrebbe messo sul piatto solo 30 milioni. Con un buco di capitale di 60 milioni, era chiaro che sarebbe stato insufficiente. Si disse e si dice che l’associazione non avesse altre risorse. E così l’amministratore delegato Franco Moscetti e il presidente Giorgio Fossa hanno cercato soldi vendendo un pezzo pregiato del gruppo: l’area formazione, da sempre foriera di utili.
Per salvare il Sole servivano almeno 90-100 milioni. Trovati facendo sottoscrivere ai soci di minoranza 20 milioni e privandosi di un asset redditizio. Ma davvero Confindustria era alle strette? Il presidente Vincenzo Boccia, cui sono intestate fiduciariamente tutte le azioni ordinarie del Sole, non si è certo svenato. Per salvare l’azienda dal crac ha solo venduto un pacchetto di Btp e polizze che erano la liquidità investita di Confindustria. Nel bilancio dell’associazione restano altri 10,7 milioni di titoli, più 4 milioni di depositi bancari. Non è stata toccata neppure la riserva “istituzionale” che vale ben 51,5 milioni. Costituita nel 2000, è l’accumulo degli avanzi di gestione.
A conti fatti c’erano disponibilità di cassa per oltre 60 milioni oltre ai 30 impiegati. Si poteva evitare di richiedere una nuova linea di credito alle banche per 30 milioni, evitare che Banca Imi sottoscrivesse il 5% del capitale e soprattutto evitare di far vendere al Sole una delle poche attività in utile. I 30 milioni messi a fine 2017, dopo un decennio di perdite, sono l’unica iniezione di risorse dentro l’azienda fatta dall’associazione degli industriali. Confindustria era abituata a prendere. Nei tempi d’oro i dividendi erano nell’ordine dei 5-6 milioni l’anno. Negli anni a cavallo dello sbarco in Borsa (2007), cioè tra il 2006 e il 2008, Confindustria ha staccato dalla sua azienda ben 41 milioni tra cedole e riserve. I 30 milioni versati nelle casse nel 2017 sono meno dei 41 milioni incassati con lo sbarco sul mercato.
La quotazione avvenne a prezzi stratosferici: sul mercato solo azioni speciali a 5,75 euro per azione, col 67% del capitale blindato in azioni ordinarie non quotate in capo a Confindustria (quindi la società non è contendibile). Il prezzo valutava l’azienda ben 4 volte il suo patrimonio netto: un’ enormità giustificata solo dalla poderosa campagna acquisti pre-quotazione per ottenere multipli più elevati. A quel prezzo (che fece incassare al Sole 200 milioni) occorreva che il gruppo producesse utili, ogni anno e per decine d’anni, almeno al 10% dei suoi ricavi. Successe il contrario. Nei primi 40 giorni di Borsa nel 2007 il titolo perse oltre il 30%. I fondi istituzionali vendettero, i piccoli risparmiatori, attirati dal blasone del giornale, ci hanno rimesso tutto.
Dalla quotazione il titolo ha bruciato il 95% del suo valore. Già 24 mesi dopo, nel 2009, emerge il primo buco per 52 milioni. Molte delle attività comprate prima dello sbarco sul listino vengono svalutate. Come Business media, l’editoria per le imprese: pagata oltre 40 milioni verrà venduta a zero nel 2014. Dai 570 milioni di fatturato nel 2008 si scende ai poco più di 220 attuali. Si vende l’area software nel 2014; ci si sbarazza perdendo 40 milioni di investimento di Business media. Ma si fanno anche acquisizioni strampalate. Il Sole entra nell’area cultura e nella gestioni del Museo delle Culture di Milano e delle mostre in giro per l’Europa. L’area cultura perderà in soli 6 anni ben 26 milioni di euro.
Arrivano gli anni opachi della gestione di Benito Benedini, Donatella Treu e dell’ex direttore Roberto Napoletano, ora indagati dalla Procura di Milano. Si tenta di arginare il declino alterando i dati della diffusione del giornale con la vendita di copie digitali rivelatesi fasulle. Si aggiungono ricavi fittizi con costi che però li superano. Il tutto per far figurare più copie diffuse nella speranza di avere più investimenti pubblicitari.
Mentre il Sole va a capofitto, con le perdite cumulate che dal 2009 fino alla ricapitalizzazione superano i 340 milioni, Confindustria nega il problema. Ancora nel 2015 tiene a bilancio il 67,5% del Sole a 132 milioni pesando le sue azioni più del doppio del valore di Borsa. Eppure in quell’anno le perdite cumulate avevano portato il patrimonio del Sole a soli 86 milioni. Soltanto nel 2016, con l’azzeramento del capitale, Confindustria svaluta per la prima volta la sua quota nel giornale a 69 milioni, comunque il doppio del valore di mercato. Fare bilanci allegri non è certo lusinghiero per la ex potente associazione degli imprenditori. Alla faccia della trasparenza e del mercato cui Confindustria inneggia.