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 2018  giugno 06 Mercoledì calendario

In morte di Pierre Carniti

ROBERTO MANIA PER LA REPUBBLICA


Pierre Carniti è nato e morto di sinistra. Il padre lo chiamò Pierre, e lo fece sfidando il regime fascista che non voleva nomi stranieri. Così lo schierò da subito, e per sempre, a sinistra e dalla parte dei più deboli. Se ne è andato ieri, aveva 81 anni, era da tempo malato.
È stato il primo segretario generale della Cisl non democristiano, è stato un sindacalista operaista, il leader di una corrente eretica (il carnitismo) nella confederazione di matrice cattolica e anticomunista. Nipote della poetessa Alda Merini. Scrisse di lui Miriam Mafai: «Il più anomalo dei sindacalisti, un segretario della Cisl che si vanta di essere cattolico e di non aver mai votato per la Dc, un dirigente che ha speso anni e intelligenza a preparare l’unità sindacale e che non ha esitato a farla poi a pezzi, un sindacalista che nel breve arco di dieci anni ha imposto il punto unico di contingenza e gli aumenti uguali per tutti e poi l’abolizione dei quattro punti della professionalità, un leader che con la stessa violenta passione ha promosso e teorizzato l’antagonismo in fabbrica e la concertazione sociale». C’è tutto Carniti, la sua vita, le sue contraddizioni, le sue rotture, le sue scelte, il suo carattere. Il suo modo di essere sindacalista e cristiano, la sua autonomia rispetto ai partiti politici.
Combattivo e anche estremista.
Decisivo nello svecchiamento culturale della Cisl; determinante nelle lotte per l’egualitarismo salariale e, anche, per l’affermazione della contrattazione articolata contrapposta al totem cigiellino della contrattazione nazionale centralizzata.
Nacque a Castelleone, paese agricolo di ottomila abitanti, nella Bassa cremonese, da una famiglia operaia: otto persone in una casa di due stanze: «Una per viverci l’altra per dormire», raccontò. Patì la fame. Iniziò a lavorare a quattordici anni come garzone e fattorino in una tipografia. Entra nella Cisl nel 1956, Luigi Macario gli propone di andare a studiare da sindacalista nel Centro studi di Firenze, insieme a Franco Marini, Eraldo Crea e Mario Colombo, i migliori di quella generazione. Fa una carriera rapidissima, a ventisette anni è il segretario della Fim (la federazione dei metalmeccanici della Cisl) di Milano. È alla guida dei metalmeccanici nella stagione del “risveglio operaio” che porterà al lungo Autunno caldo italiano. È insieme a Bruno Trentin uno deileader di quel movimento. Coltiva e prova a realizzare l’unità tra i metalmeccanici. Non ci riesce. Nel 1979 diventa il segretario generale della Cisl. Cominciano gli anni della parabola discendente del sindacato e della rottura dell’unità. Il terrorismo brigatista entra in fabbrica. Arrivano anche per lui le minacce delle Br.
L’economista Ezio Tarantelli, poi ammazzato dai brigatisti, con la proposta di predeterminazione dei punti di scala mobile, diventa un punto di riferimento intellettuale per la Cisl carnitiana. Prima c’è il 1980, l’anno della drammatica sconfitta alla Fiat, i 35 giorni di occupazione di Mirafiori, finiti con lo smacco della “marcia dei quarantamila” per le strade del centro di Torino. Poi lo scontro sulla scala mobile, il decreto di San Valentino dell’84 del governo Craxi, il referendum promosso dal Pci dopo la morte di Enrico Berlinguer. Carniti sta con Craxi e vince. Ma decide di andarsene: «Compresi che la mia avventura era finita. I rapporti unitari erano a rotoli; la concertazione in crisi; l’idea del sindacato soggetto politico autonomo contestata a destra e a manca; Pierre Carniti la bestia nera. La vittoria al referendum era il mio canto del cigno perché, in questo genere di sfide, la vittoria ha lo stesso sapore della sconfitta. Finiva la mia stagione alla guida della Cisl».
Rifiuta la presidenza della Rai in quota socialista, per dieci anni siede nell’Europarlamento per il Psi e i Ds, qualche mese al Senato, presiede la Commissione sulla povertà. Guarda con sofferenza il declino dei sindacati. Lo scrive e non cambia idea: «Dicevano che ero di sinistra. Sì, lo ero e lo sono anche oggi: c’è qualcosa di male?».

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ANTONELLA BACCARO, CORRIERE DELLA SERA –
Dello stile di Pierre Carniti, storico segretario generale della Cisl (1979-1985), scomparso ieri all’età di 81 anni e commemorato con un minuto di silenzio al Senato, parlano le molte scelte drammatiche fatte in nome di un principio o per senso di responsabilità, anche quando significavano rimetterci in prima persona o rinunciare a un sogno più grande. Come quello dell’unità sindacale, che l’uomo, cremonese di Castelleone, ha perseguito fino all’ultimo, con una lettera-appello indirizzata nell’ottobre scorso alle tre confederazioni nella quale, pur comprendendo «tutti i dubbi e le perplessità» circa le differenze che hanno sempre diviso il sindacato, riteneva arrivato il momento di metterli da parte, perché non diventassero «un alibi per sfuggire alle proprie responsabilità».
Quella dell’unità fu la sua prima strategia all’inizio degli anni sessanta, quando divenne segretario dei metalmeccanici milanesi, e pensò di avvicinarsi a Cgil e Uil, portando in dote un sindacato cattolico che lui aveva aperto agli operai meridionali presenti nelle fabbriche. Il risultato fu quello di vincere, insieme con la Fiom di Bruno Trentin, la battaglia dei primi contratti d’azienda.
Diventato segretario generale della Cisl dovette affrontare la «polveriera» dei licenziamenti collettivi a Mirafiori nel 1980 e dei conseguenti scioperi: con Lama (Cgil) e Benvenuto (Uil) firmò l’intesa dopo la «marcia dei 40 mila». Lo fece obtorto collo: «Fosse stato un accordo qualsiasi avrei risposto che no, io non avrei firmato. Anche perché quell’accordo non avrebbe risolto la crisi Fiat che aveva altre ragioni, come gli anni successivi avrebbero confermato. Ma si trattava di gestire una sconfitta, non potevo tirarmi indietro per senso di responsabilità e anche per la solidarietà e l’affetto che mi hanno sempre legato a Luciano Lama». Coerenza che gli costò cara, con la piazza che lo contestò aggredendolo anche fisicamente. 
E sempre per coerenza, dopo un primo accordo unitario nel 1983 per frenare la scala mobile, insufficiente a fermare l’inflazione galoppante, firmò l’anno dopo, insieme con la Uil, l’«accordo di San Valentino», inviso al Pci di Berlinguer e perciò respinto dalla Cgil che con i comunisti convocò nel 1985 un referendum abrogativo, conclusosi con lo storico «no». Pochi giorni prima della consultazione, le Brigate Rosse uccisero l’economista del lavoro Ezio Tarantelli, consulente di Carniti. Gli eventi di quegli anni, a livello personale, e lo strappo con la Cgil lo indussero a lasciare la segreteria a Franco Marini nella speranza che questi potesse ricucirlo. 
In un congresso cui assistettero tutti i segretari di partito e buona parte del governo Craxi, Carniti, come sempre, non fu tenero. Rivendicò la diversità culturale della Cisl: «Noi abbiamo appreso a considerare la diversità una ricchezza, anziché un ostacolo, avendo lasciato indietro l’illusione che qualcuno o qualche ideologia possano monopolizzare la rappresentanza del lavoro». E con lungimiranza espresse la necessità di riformare il sistema della contrattazione, partendo da «una tutela normativa e salariale minima» per il lavoro dipendente e dall’estensione della rappresentanza sindacale ai lavori non protetti e precari.

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GIORGIO MELETTI, IL FATTO QUOTIDIANO –

Pierre Carniti era una persona perbene. Non è una banalità da tributare all’ex segretario generale della Cisl che si è spento ieri a Roma a 81 anni dopo una lunga malattia. È piuttosto la ragione profonda che ha impedito all’Italia malata dei suoi tempi di fare tesoro del suo talento. Carniti era lombardo di Castelleone (Cremona), doveva il nome francese alla rivolta paterna contro l’obbligo fascista dei nomi italiani. Lavorò fin da ragazzo con i metalmeccanici della Fim-Cisl. Era un’altra Cisl, a trazione nordista e operaia che esprimeva una radicalità più spiccata, e più moderna, della Cgil. Oggi rimane la Fim, una cosa un po’ strana dentro la Cisl perché ancora figlia di Carniti: l’attuale leader Marco Bentivogli è figlio di Franco Bentivogli, il braccio destro e poi successore alla guida dei metalmeccanici.

L’autunno caldo, le conquiste salariali, lo Statuto dei lavoratori trasformano il mondo del lavoro nel biennio 1969-70 sotto la guida dei grandi leader metalmeccanici Bruno Trentin, Carniti e Giorgio Benvenuto, destinati a conquistare il vertice delle loro confederazioni dopo aver realizzato, cosa oggi impensabile, l’unità sindacale con la creazione della Flm.

Carniti succede a Luigi Macario nel 1979. Sembrano gli anni d’oro della cosiddetta “triplice”, guidata dall’inscindibile terzetto Lama-Carniti-Benvenuto. Ma sono anche gli anni in cui inizia il declino, dopo la storica sconfitta alla Fiat con la marcia dei 40 mila. Ed è negli anni Ottanta che si consuma la spaccatura mai più sanata tra i comunisti di Luciano Lama e tutti gli altri. Lo strappo lo dà Bettino Craxi con il decreto di San Valentino (14 febbraio 1984) che abolisce la scala mobile. Carniti è con Craxi. Al suo fianco c’è l’economista Ezio Tarantelli che un anno dopo verrà ucciso dalle Brigate Rosse. Teoricamente c’erano le condizioni per una spinta modernizzatrice della strana coppia Craxi-Carniti. Sono gli anni in cui il lavoro cambia, entrano i primi robot nelle fabbriche, sta crollando il muro di Berlino, l’Europa sta costruendo il mercato unico.

Ma Carniti non ingrana mai nell’Italia di Craxi e Andreotti. C’è a ostacolarlo il suo cattolicesimo ascetico – che lo porterà a fondare con Ermanno Gorrieri il Movimento dei Cristiano-sociali – e soprattutto l’idea che i principi vengano prima del machiavellismo, per non dire altro. A dimostrarlo la vicenda assurda della mancata presidenza Rai.

Fu proprio Craxi a candidarlo nell’autunno 1985 al posto di Sergio Zavoli. Per la Rai lottizzata di allora il meccanismo era blindato: Carniti presidente in quota socialista, il vicepresidente in quota al partito socialdemocratico (alla Dc toccava il direttore generale). Ma il candidato presidente dice no al diktat partitocratico. Chiede che sia lasciata al consiglio d’amministrazione la scelta del vicepresidente. La partitocrazia va in tilt, la Dc non vuole un presidente Rai che non obbedisce alle segreterie politiche.

Marco Pannella, come al solito, è l’unico a capire e si batte da solo per Carniti: “Occorre che il presidente abbia forza propria, personale, straordinaria stima nel Paese per assolvere a funzioni che sono innanzitutto di massimo garante del rispetto e della restaurazione della legge, della lealtà dell’informazione e dell’autonomia effettiva del servizio pubblico dai centri di potere partitocratico e camorristico, di camorre interne ed esterne” (parole ancora utili in vista delle prossime nomine Rai).

Craxi non risponde agli appelli di Pannella, cede alla Dc che gli garantisce i voti per stare a Palazzo Chigi, designa per la Rai il suo capocorrente Enrico Manca.

Da allora, e sono passati più di trent’anni, Carniti si è sostanzialmente eclissato, dedito allo studio e alla scrittura, mentre la Cisl diventava il basso impero del pubblico impiego dei Franco Marini, Sergio D’Antoni e Raffaele Bonanni. E, parlando ogni tanto a un convegno o scrivendo un libro, ha ricordato all’Italia che occasione aveva sprecato.


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