Corriere della Sera, 6 giugno 2018
Cosa sognava «Bobby», mio padre
Immaginiamo un candidato che proclami «Pace, giustizia e solidarietà verso coloro che soffrono, di questo dovrebbero farsi campioni gli Stati Uniti, ed è quello che io mi impegno a realizzare se sarò eletto presidente».
Sanare le lacerazioni del paese, questo ideale rappresentava il tema centrale della campagna elettorale di mio padre, Robert Kennedy, che finì nel sangue esattamente il 6 giugno di cinquant’anni fa.
Bob Kennedy era riuscito a raccogliere attorno a sé le energie positive della nazione proprio perché animato da una visione morale, che gli consentiva di vedere le cose dalla prospettiva degli altri, che si trattasse dei lavoratori agricoli dello stato di New York o della California, delle masse afroamericane che minacciavano disordini e scontri sulla scia dell’assassinio del loro leader, oppure dei nemici in tempo di guerra.
Questa sua capacità ha salvato il nostro Paese dalla catastrofe nucleare durante la crisi dei missili a Cuba, quando mio padre riuscì a capire che il premier sovietico, Kruscev, non voleva personalmente la guerra, ma si sentiva spinto con le spalle al muro dall’apparato militare industriale dell’Unione Sovietica che rumoreggiava a favore del conflitto armato.
Dopo l’assassinio di Martin Luther King, mio padre si presentò davanti alla folla nel più popoloso quartiere afroamericano di Indianapolis e disse, «Per gli americani di colore, che avvertono la tentazione di abbandonarsi all’odio e alla sfiducia contro tutti i bianchi, per questa tremenda ingiustizia da loro patita, posso solo dire che provo nel mio cuore la stessa indignazione».
Poi accennò all’assassinio del fratello.
Provate a immaginare un leader politico capace di rivolgersi a una massa di gente armata di catene di biciclette, gambe di tavoli e bottiglie Molotov, pronta alla sommossa, ed esprimere la propria comprensione verso tutti coloro che avvertivano la tentazione della violenza.
Dopo l’assassinio di Martin Luther King, 125 città americane furono date alle fiamme. Nulla di tutto questo accadde a Indianapolis.
Le sue parole di quella notte riecheggiano attraverso cinque decenni. Robert Kennedy disse: «Negli Stati Uniti non abbiamo bisogno di divisioni, di odio, di violenza e illegalità; ma di amore e saggezza, di compassione e solidarietà gli uni verso gli altri; abbiamo bisogno di lottare per la giustizia verso coloro che ancora soffrono in seno alla nostra società, bianchi o neri che siano».
Fu proprio quello slancio morale a spingere mio padre a trascorrere un’intera giornata del suo tempo prezioso, al culmine della campagna elettorale, nella riserva indiana di Pine Ridge, che all’epoca, come oggi, rappresentava la comunità più povera ed emarginata del nostro Paese. I suoi consulenti vi si opponevano con tutte le loro forze, ma mio padre non rinunciò a recarsi nella riserva e trascorse la mattinata con Christopher Pretty Boy, un bambino di dieci anni che aveva appena perso entrambi i genitori in un incidente stradale. Mio padre invitò Christopher a trascorrere l’estate con noi a Hyannis Port. Purtroppo, Pretty Boy morì tragicamente prima dell’arrivo dell’estate.
Mio padre sapeva abbinare all’indignazione morale la ferma fiducia nel potere del singolo individuo. Mi ricordo come, a otto anni, seduta nel nostro salotto a Hickory Hill, dominato da un televisore Rca Victor, guardavamo Washington che bruciava un paio di giorni dopo l’assassinio di Martin Luther King. Mio padre disse che doveva fare qualcosa. L’ho seguito con lo sguardo mentre lasciava la stanza, ho sentito il rumore dei suoi passi sulla scala e pochi minuti dopo l’ho visto uscire di casa e salire in macchina. Un quarto d’ora dopo, mentre guardavo ancora la televisione, l’ho visto comparire proprio lì, nel bel mezzo della città in fiamme. Quando vedeva qualcosa che non andava bene, mio padre si sentiva moralmente obbligato a intervenire, e non esitava mai. Passava subito all’azione.
Sono cresciuta in una famiglia politica, circondata da politici sin dalla nascita. Il modo migliore per vincere una competizione elettorale resta sempre la leva della rabbia, della paura e dell’odio. Nel nostro Paese esiste una forte corrente in quel senso, da Huey Long negli anni Trenta a George Wallace, Pat Buchanan, Louis Farrakhan, fino a Donald Trump di oggi. È facile farsi eleggere a questo modo, ma quasi impossibile riuscire a governare.
Mio padre si presentò alle elezioni in un periodo in cui il nostro Paese era più diviso che in qualsiasi altro momento della sua storia, e si dedicò attivamente a ricomporre quelle spaccature. Fu in grado di farlo, perché seppe appellarsi alla parte migliore di tutti noi, a quella parte di noi che sapeva intimamente che potevamo essere una nazione migliore, riallacciandoci ai valori fondamentali dell’America: libertà, giustizia e sacrificio per il bene comune. Il suo messaggio risuona forse ancor più importante e urgente oggi che negli ultimi cinquant’anni.
(traduzione di Rita Baldassarre)