La Stampa, 5 giugno 2018
La propaganda si scontra con i numeri
La flat tax all’italiana non sarà tanto piatta: anziché avere un’aliquota sola ne avrà due o tre. Ma soprattutto non è chiaro quando arriverà. Alberto Bagnai, economista entrato in Parlamento con la Lega, dice nel 2020. Armando Siri, nel partito di Salvini il più convinto sostenitore del taglio delle imposte, nel 2019. Il programma del centro-destra era elettoralmente efficace perché si concentrava sulle tasse pagate dalle persone, pare invece che il governo voglia cominciare riducendo l’imposta sul reddito d’impresa (che è già flat).In queste ore, la nuova maggioranza comincia a prendere confidenza con i dossier. Che sia difficile tradurre la propaganda in azioni concrete, è normale. Ma proprio perché non si parla ancora di misure precise, forse i ministri dovrebbero costringersi a un po’ più di cautela nelle loro uscite pubbliche. In poche ore, Luigi Di Maio, per esempio, ha abbozzato una riforma delle pensioni, immaginato un salario minimo per i rider, annunciato che bisogna «penalizzare chi delocalizza».Il guaio è che anche le intenzioni migliori possono produrre un esito opposto a quello voluto. Soprattutto se si perde di vista il quadro d’insieme. Il problema dei problemi dell’Italia è che la produttività del lavoro è ferma da inizio Anni Novanta.Diventare più produttivi, accorciare i tempi in cui si realizza un certo bene o servizio, è un processo che avviene necessariamente in azienda o in ufficio. Ci sono idee diverse su come il governo possa agevolarlo, senz’altro lo può ostacolare. Come? Rendendo più difficile «sistemare» i fattori della produzione nel modo che, in un certo momento, è più conveniente.Non è detto che valga sempre la pena fabbricare una certa merce in un certo luogo, né è una tragedia se lo si compra altrove: in Italia non produciamo quasi più zucchero eppure non percepiamo il rischio di doverne far senza. La volontà di «punire» chi delocalizza è coerente con l’assunto per cui la ricchezza del mondo è una torta: se i serbi (per esempio) se ne tagliano una fetta più grossa ai piemontesi ne rimane di meno. In realtà se un’azienda migliora la resa di una produzione, realizzandola dov’è più conveniente, può finire per avere più risorse per ammodernare i suoi impianti in un altro territorio, e fare lì beni a maggiore complessità. Tutto questo non può accadere se non è economicamente conveniente che avvenga.Come ha ricordato un bravo imprenditore, Roberto Brazzale, se prevalgono criteri politici («se tieni qui i processi produttivi solo perché te lo chiede il sindaco nonostante il tuo contesto abbia costi strutturalmente elevati») le aziende si condannano al declino.Paradossalmente, il governo del cambiamento è in continuità con quello che l’ha preceduto, che ha tenuto a battesimo, per la vicenda Embraco, un fondo «anti-delocalizzazione». Non vi si è poi fatto ricorso (sono entrate in gioco nuove imprese) ma ora che c’è verrà utilizzato.Fermare le delocalizzazioni è già implicitamente dire addio all’idea che l’Europa sia un «mercato unico» nel quale prodotti e produzioni si spostano liberamente. Qualcuno ne sarà felice, immaginando che così si riaffermi la sovranità nazionale.La questione rilevante, però, è se accresca o meno l’efficienza del sistema. Se le imprese impiegano male le loro risorse si indeboliscono e se si indeboliscono è difficile che il Paese si rafforzi. Questo avviene quasi regolarmente quando i governi pensano di sapere meglio degli imprenditori ciò che questi ultimi devono fare. Quando mettono mano alla fiscalità d’impresa, lo fanno di solito con questo obiettivo. Forse abbassare le tasse alle persone fisiche è, anche per le aziende, la strada meno rischiosa.