Corriere della Sera, 5 giugno 2018
A proposito della parola «fiero»
«Corri e fottitene dell’orgoglio, ne ha rovinati più lui che il petrolio», cantava Vasco tantissimi anni fa. Per volare più su c’è Sant’Agostino: «Fu l’orgoglio a trasformare gli angeli in diavoli». Da sempre l’umanità s’interroga sulla soglia oltre la quale l’amor proprio degenera nel peccato capitale. Insomma: qual è la differenza tra orgoglio buono e orgoglio cattivo? Tim Lomas, psicologo della University of East London, ha trovato la risposta in una parola magnifica della nostra lingua: fiero. Come racconta su The Conversation, c’è arrivato partendo dalle trappole della pienezza di sé: nella forma più innocua (la sopravvalutazione delle proprie capacità) fa sbattere contro i muri della vita, in quella più perniciosa (il narcisismo aggressivo) porta a nuocere agli altri. Sul piano collettivo, «una fede irrealistica nella grandezza del proprio gruppo» può sfociare nella guerra. Ma allora qual è l’orgoglio «buono»? Gli sforzi della psicologia per distinguerlo attingono al lessico: «Prendiamo l’esempio della parola italiana fiero, termine affascinante che manca di un equivalente in inglese». In italiano «fiero» è sinonimo di orgoglioso, ma ha anche una sfumatura specifica – sottolineata dalla psicologa Isabella Poggi – che connota «la capacità di trionfare sulle avversità». Paul Elkman, nel suo Atlas of Emotions, con la voce «fiero» definisce «la soddisfazione che si prova di fronte a una sfida che estende le proprie capacità». È il sentimento che Tim Lomas, gran tifoso di calcio, spera susciti l’Inghilterra ai prossimi Mondiali: «Non l’ostilità verso gli avversari» ma «la gratificazione che viene dal dare il meglio, dal comportarsi con dignità e buona grazia». Noi ai Mondiali non ci saremo, ma possiamo essere fieri del nostro vocabolario. E pazienza se Vasco quella strofa la concludeva così: «Ci fosse anche una sola probabilità, giocala...».