Corriere della Sera, 5 giugno 2018
La piazza, gli scioperi, la cacciata del premier. Perché ora trema il regno di Giordania
Non è la prima volta che il re di Giordania accetta le dimissioni di un primo ministro, anticipando o seguendo il malcontento popolare per ragioni politiche, sociali e soprattutto economiche. Ma è la prima volta che il regno, passato praticamente indenne nel tunnel delle primavere arabe, deve affrontare la crisi più grave degli ultimi trent’anni.
Re Abdallah è un sovrano saggio, come lo era suo padre Hussein, però adesso i morsi della crisi sono davvero sanguinosi, e la rabbia popolare rischia di non poter essere arginata, come è accaduto nel passato. Il re ha cercato di contenerla, ma la pioggia di tasse che si sono abbattute sul piccolo regno, assediato dai problemi, non è facilmente contenibile. Tutto cresce esponenzialmente. Gli aumenti riguardano 165 beni, tra cui molti di prima necessità, che seguono gli aumenti già in corso di benzina, elettricità e acqua. Pochi mesi fa, visitando Amman come ambasciatore di Gariwo, la foresta dei Giusti, ho scoperto che persino il visto d’ingresso è diventato carissimo.
Il primo ministro uscente Hani Mulki, da tempo sotto il tiro delle proteste di massa organizzate da Ali Abous, che controlla almeno quindici organizzazioni sindacali, paga per alcuni errori, ma le sue dimissioni riguardano un conto complessivo che, sostanzialmente, tocca tutti i settori della vita del regno. Il re ha già indicato il successore, il riformista Omar Razzaz, ministro dell’Educazione: un tecnico con una solida preparazione internazionale. Basterà? Il rischio è che non basti. La disoccupazione ha raggiunto e superato il 18 per cento ( per i giovani è ben più del doppio). È chiaro che l’incubo tunisino è ben presente tra coloro che, dentro e fuori dal Paese, hanno a cuore la stabilità della Giordania. È ovvio che è nell’interesse di Israele e degli Stati Uniti, nonostante la discutibile politica di Donald Trump, fare il possibile per aiutare il Paese, da sempre alleato fedele dell’Occidente. La Giordania – basta guardare la carta geografica per rendermene conto – è assediata da problemi. Confina con Israele, con l’Iraq, con la Siria e con l’Arabia Saudita. È costretta ad ospitare quasi un milione di profughi siriani e iracheni, pagando tutto ciò’ che gli aiuti internazionali non sono in grado di coprire. Ha dovuto subire – per il regno è uno schiaffo davvero inaccettabile – la decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme.
Il regno hashemita è responsabile dei luoghi santi musulmani e cristiani della Città Santa. Non solo. Quasi il 70 per cento della popolazione giordana è di origine palestinese. È quindi facile comprendere come ogni sussulto, sull’altra riva del fiume Giordano, abbia gravi conseguenze sulla stabilità della monarchia. Ecco perché la fragilità del regno sta allarmando tutto il mondo. Negare un aiuto immediato vorrebbe dire consegnare l’intera regione, già martoriata, al caos.