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 2018  giugno 05 Martedì calendario

«La mia carriera l’hanno decisa i treni che andavano a Varese». Intervista ad Alfredo Ambrosetti

Alfredo Ambrosetti non ama i cambiamenti. È sposato con la stessa moglie, Lella, da 48 anni; le sue assistenti Wilma e Marisa lavorano con lui da 49 e 46. Per 41 anni è stato il grande cerimoniere del supremo rito dell’establishment economico italiano, il Forum Ambrosetti di Villa d’Este a Cernobbio, una tre giorni in cui i poteri forti (tali erano una volta) si incontrano in favore di telecamera: dal 1975, anno in cui tenne a battesimo la sua creatura («Un bagno di sangue, in tutto arrivarono 14 persone. Non le dico finanziariamente...»), al 2016, quando ha lasciato l’incarico di presidente onorario.
Oggi, che di anni ne ha 87, nella sua splendida villa affacciata sul lago di Varese, Ambrosetti sorride divertito mentre racconta la sua storia. «Vuole sapere come ho scelto l’università e il mio primo posto di lavoro?»
Volentieri, dica...
«Mio padre mi consigliò Economia e Commercio. A Milano Bocconi o Cattolica. Io guardai la cartina e vidi che la Cattolica era vicino alla stazione delle Ferrovie Nord per Varese. Non avevo la minima intenzione di lasciare la mia città e quindi scelsi la Cattolica. Una volta laureato ricevetti 87 proposte di lavoro. Una di queste era della Edison, sede in Foro Bonaparte, ancora una volta a pochi passi dalla stazione. Non ebbi dubbi: Edison. E lì ho avuto la prima fortuna». 
E cioè? 
«Mi assegnano una Borsa di studio per un’università americana, Syracuse. Non parlo praticamente una parola d’inglese ma incomincio a lavorare con i grandi elaboratori elettronici a schede perforate, i nonni dei computer di oggi, e vedo come funzionano le aziende americane. Poi torno in Italia, faccio delle conferenze e dopo ogni incontro ci sono sempre tre o quattro imprenditori che vengono a chiedermi come tenere le loro aziende al passo coi tempi. Solo che io lavoro in Edison. Finchè non arriva la nazionalizzazione».
A quel punto che succede? 
«Nel frattempo sono diventato dirigente, il più giovane della società, ma una volta diventati Enel se si voleva far carriera bisognava andare a Roma, lontanissimo da Varese e, soprattutto, le caratteristiche che contavano non erano più quelle legate al merito. In breve, mi metto in proprio e fondo la mia società di consulenza».
E qui inizia l’ascesa. Da consulente lei stringe rapporti con i protagonisti dell’industria italiana. Il suo nome viene spesso accostato a due patriarchi come Pietro Barilla e Michele Ferrero.
«Barilla era un grande imprenditore, ambizioso, moderno, visionario. Lo conobbi subito dopo che aveva ricomprato l’azienda dagli americani di Grace e dopo che, a nemmeno 50 anni, aveva avuto il secondo infarto. Completato il riacquisto la prima cosa che fece fu andare in Germania a comprare le macchine più tecnologicamente avanzate del mondo. Era anticomunista fino al midollo e durissimo con i sindacati. Al Forum venivano tutti, spesso per esempio c’era Luciano Lama. E quando si parlava di sindacati Barilla, insieme a Romiti, era il più feroce».
E Ferrero? 
«Un genio della ricerca. La chiave del suo successo è in una società, Soremartech, che lui ha fondato, in cui ricerca, sviluppo e marketing operano come una cosa sola. È il motivo per cui i prodotti della Ferrero, anche banali come i Tic tac, hanno successo in tutto il mondo. Oltre che geniale era schivo, detestava apparire nella maniera più assoluta, e religiosissimo. Quando in azienda si approvava il budget con le previsioni di bilancio, prendeva i documenti contabili e li portava a Lourdes per farli benedire. Vicino a lui c’era una protagonista sottovalutata: la moglie. Non aveva incarichi ufficiali, il suo compito era aiutare il marito a scegliere le persone giuste per i vari incarichi. E lo faceva molto bene».
Poi le viene l’idea del Forum. 
«Avevamo avviato, primi in Italia un servizio di aggiornamento permanente dedicato ai massimi responsabili aziendali. Presentavamo gli scenari economici, affidati a Nino Andreatta, quelli sociopolitici, di cui si occupava Francesco Alberoni e i temi tecnologici che trattava Umberto Colombo. Pensammo di unire in un unico incontro le tre sessioni». 
Ma, come diceva, non fu un gran successo
«Un bagno di sangue, appunto. Solo che l’ultima sera, Nino Andreatta, a cui non faceva certo difetto l’autostima, mi disse una cosa: sai che non ho mai imparato tanto come negli ultimi tre giorni? Da li mi convinsi che valeva la pena continuare. Il secondo anno i partecipanti erano diventati 37, e poi il tetto che avevamo fissato, 200/225 persone, fu sempre superato. Anzi, ogni anno avevamo il problema delle liste d’attesa».
E un po’ alla volta il Forum divenne un appuntamento imperdibile per chi conta nell’economia.
«Di solito avevamo quattro o cinque capi di Stato, abbiano avuto tre vicepresidenti Usa, un futuro papa...»
L’allora cardinale Ratzinger. Come lo convinse?
«Noi siamo una famiglia molto cattolica. Ogni anno verso febbraio andavamo in Vaticano e qui vedevo il portavoce di papa Woitila Navarro Valls, con cui avevo un ottimo rapporto. Discutevamo dei temi del momento e lui sensibilizzava questo o quel cardinale. Ratzinger venne a discutere di un argomento in quel momento molto caldo, il dibattito sulle radice cristiane dell’Europa. Un intervento indimenticabile».
Una presenza costante erano Gianni e Umberto Agnelli. Come li conobbe? 
«Il rapporto iniziale fu con Cesare Romiti, che avevo conosciuto quando lavorava in Bombrini Parodi, e con cui continuavo a collaborare in Fiat. Ho contribuito a ridisegnare completamente l’organizzazione del gruppo: da un’entità unica furono separate le varie aree di attività: Auto, Veicoli industriali e così via. Era il periodo delle Br: rapimenti, attentati e gambizzazioni praticamente ogni giorno. Poi una mattina arrivai e di fronte ai cancelli e vidi su un enorme telone di camion il mio nome e una mia caricatura mentre con un badile buttavo fuori dalla fabbrica gli operai. Romiti decise che era meglio cambiassi aria. Con il suo assistente di allora, Umberto Quadrino, poi diventato numero uno di Edison, ci mandò a studiare la riorganizzazione in un posto meraviglioso, l’Hotel Splendido di Portofino. Davvero bellissimo, ma per tutto il tempo che rimanemmo lì ricordo non riuscimmo a mettere il naso fuori dall’albergo». 
E i rapporti con gli Agnelli? 
«All’inizio furono del tutto casuali, con Gianni mi incontravo nei corridoi dove stavo lavorando, con Umberto iniziai a collaborare in Ifi e Ifil, l’attuale Exor. Poi Gianni invitò me e mia moglie a casa sua e di quel pranzo mi ricordo una accanita discussione tra i due fratelli su quale fosse l’albergo più bello del mondo. Alla fine vinse il Peninsula di Hong Kong. Entrambi iniziarono a venire a Villa d’Este e non mancarono più. E quando Gianni Agnelli dovette organizzare in Italia la riunione del club Bilderberg, affidò a me il compito. E il rapportò continuò anche attraverso il Bilderberg, una delle associazioni meno capite del mondo».
In che senso? 
«Ma sì, viene accusato di essere una lobby segreta che agisce a livello internazionale. In realtà, certo, ci sono dei personaggi simbolo, in Italia, appunto, c’era Gianni Agnelli, negli Stati Uniti David Rockfeller. Poi però i membri, non più di 4 o 5 per Paese, cambiano ogni anno. Non si è mai vista una lobby a rotazione. In ogni modo, dopo aver organizzato due edizioni, venni invitato come partecipante: a Versailles, Baden Baden e a Glenaegles, in Scozia. Qui ho sentito il discorso più bello della mia vita». 
Chi fu a colpirla così tanto?
«Margaret Thatcher. Di discorsi non ne ho sentiti pochi, ma in quella occasione la lady di ferro si superò, la sua fu una performance straordinaria, per forza e profondità dei concetti, chiarezza e capacità retoriche. Davvero indimenticabile».
A Villa d’Este ad un certo punto arriva anche Di Pietro, erano gli anni di Mani Pulite. 
«Le racconto: un giorno viene da me la mia assistente e mi annuncia che c’è Di Pietro al telefono. Penso a uno scherzo e mi metto a ridere. Dopo qualche minuti torna e in maniera più concitata mi dice che è davvero lui. E lì per un attimo non ho saputo cosa pensare, lo ha ricordato anche lei, erano anni complicati, non avevo idea di che cosa volesse da me. Poi prendo la cornetta e Di Pietro mi spiega che ha trovato la formula per riappacificare economia e giustizia, attraverso l’ emersione volontaria degli episodi di corruzione. Dice che ci ha pensato molto e che la sede più adatta per parlare direttamente agli imprenditori è il Forum. Per questo mi chiede una cortesia, se gli posso affidare un ruolo da relatore. E così accade».
Fin qui siamo all’Italia, ma la particolarità di Villa d’Este sono sempre stati gli ospiti stranieri. C’è una famosa foto in cui l’israeliano Shimon Peres stringe le mani al palestinese Arafat. 
«A dir la verità nella foto, tra i due, c’è anche Gianni Agnelli e anche lui partecipa alla stretta. Aveva visto quello che stava accadendo e si era posizionato in maniera strategica a favore di fotografi». 
Ma Peres e Arafat a Cernobbio come sono arrivati? 
«Con Peres il rapporto è nato poco a poco. Le prime volte stava molto sulle sue. Poi ci siamo conosciuti meglio e mi ha anche coinvolto nelle attività del suo centro per la pace, a Tel Aviv. Di Arafat ricordo che per anni ho corteggiato il rappresentante palestinese in Italia. Poi quando il capo dell’Olp è arrivato sono andato a prenderlo all’elicottero. Era una giornata meravigliosa, lui si è guardato intorno per un attimo, poi si è voltato verso di me e mi ha chiesto. Ma dove sono capitato? Sono arrivato in Paradiso?. La bellezza di Cernobbio e di Villa d’Este è stata, senza dubbio, uno dei motivi di successo del forum».
E gli altri?
«La serietà con cui abbiamo sempre lavorato. La puntualità, per esempio: le sessioni iniziavano alle 8.45 e le assicuro che alle 8.46 era già tutto avviato. Poi, chiunque parlasse, in sala usavamo i semafori. A due minuti dalla fine del tempo assegnato si accendeva il giallo, a tempo scaduto il rosso. E i colori erano ben visibili dalla platea, in modo che tutti si rendessero conto dell’incapacità del relatore di organizzare il proprio intervento. Ricordo Wilfred Brown, ministro britannico dell’industria. Andai a Londra per invitarlo. Mi spiegò che era andato alla Fiera del Levante di Bari: mezz’ora dopo l’orario concordato il dibattito non era iniziato, era arrivato un politico e gli avevano dato subito la parola anche se non era in programma. Si era ripromesso di non tornare più in Italia. Alla fine lo convinsi e da noi è diventato ospite fisso». 
Ma c’è un personaggio che non è mai riuscito a portare al Forum? 
«Tony Blair. Doveva venire nel corso del suo ultimo anno di governo, ma per qualche motivo la partecipazione è saltata. Poi si è dimesso e immediatamente si è affidato a un agente che doveva gestirne le uscite pubbliche. Mi chiese 100mila sterline per pochi minuti. Ce ne siamo fatti una ragione».
E se confronta l’Italia dei suoi inizi e quella attuale che differenza vede?
«Quando ero giovane, a Varese il mese più vivace era agosto, perchè arrivavano da Milano le grandi famiglie che avevano la villa qui e passavano le ferie nella città giardino. La principale concorrente di allora era forse Como. Oggi se decido di andare al mare le opzioni che mi si offrono comprendono tutto il mondo. Un tempo la distanza contava, oggi non esiste più: quella che una volta era internazionalizzazione è diventata globalizzazione. Ogni singolo Paese ora dovrebbe dare risposte concrete e convincenti a una domanda: come posso rendermi interessante ad aziende, talenti e contribuenti, per convincerli a rimanere? È la prima cosa che chi è al governo dovrebbe chiedersi. Purtroppo non succede».