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 2018  giugno 05 Martedì calendario

«I marziani? Quelli strani siamo noi». Intervista a Mastandrea

Che ci fa uno stralunato Valerio Mastandrea nel deserto del Nevada, a due passi dall’Area 51 (dove in segreto si studiano gli universi alternativi), perennemente sdraiato su un divano rosso con il naso all’insù per captare i segnali dello spazio? È uno scienziato-eremita e spera di intercettare la voce della moglie defunta mentre i due nipoti adolescenti, piombati dalla natìa Napoli, gli fanno scoprire sì un altro mondo, ma quello dei sentimenti. Succede nel film Tito e gli alieni (prodotto da Bibi e RaiCinema con TimVision, esce dopodomani distribuito da Lucky Red), una commedia poetica diretta da Paola Randi, già premiata per Into paradiso, che spiega: «È una favola sull’immaginario dei bambini e la potenza dei ricordi». Tornato tra noi Mastandrea, 46 anni, davanti a un piatto di spaghetti fa il punto con sincerità e l’abituale disincanto sul film, la sua carriera inarrestabile, il mondo (quello reale).
Chi glielo ha fatto fare di schizzare fino al Nevada?
«La ricchezza poetica del film che s’intuiva già dalla sceneggiatura. Tito e gli alieni non è fantascienza ma una storia d’amore, parla di sentimenti tra le persone».
Domanda obbligata: crede nell’esistenza di altri mondi?
«Nemmeno per sbaglio. È un argomento ansiogeno che ho sempre tenuto a distanza. Come tutte le cose che non capisco».
Mai provato a chiedersi se esistono e chi sono gli alieni?
«Tutte le persone umanamente non omologate, buone e pure di cuore. Sono loro i marziani sulla terra».
Il film di Randi affronta con leggerezza la morte, un tema comune ad altri suoi lavori recenti come Euforia di Valeria Golino e la serie di Rai3 La linea verticale: solo una coincidenza?
«Probabilmente. Ma mi ha insegnato che bisogna parlare della morte per capire quanto vale la pena vivere».
In Tito e gli alieni si confronta con i suoi nipoti: affronta questi temi anche con suo figlio Giordano, 8 anni?
«Non è che iniziamo la giornata parlando della morte, ma se capita non mi tiro indietro. Non ci sono tabù».
Che ruolo interpreta nel nuovo film I moschettieri del re di Giovanni Veronesi?
«Sono Porthos, locandiere ubriacone. Il film è una rilettura del romanzo di Alexandre Dumas di cui mantiene la dimensione epica. L’ho girato per il piacere di tornare a lavorare con Veronesi e avere come compagni Favino, Rubini, Papaleo. I nostri moschettieri sono attempati, cinici e disillusi. Un po’ come Gli Spietati, i cowboy di Eastwood».
Ha diretto Ride (un film in predicato per Venezia) perché era stanco di farsi dare gli ordini?
«No, volevo vedere le cose da un’altra angolazione».
Ripeterà l’esperienza di regista?
«Solo se avrò delle cose da raccontare. Dopo il debutto dietro la cinepresa ho apprezzato ancora di più la condizione di attore: diretto da un altro, senza responsabilità, mi sono sentito come un papa».
Soddisfatto della sua carriera?
«Sono felice di continuare a fare un lavoro che può ancora sorprendermi e divertirmi».
Quand’è che un film può definirsi di qualità?
«Impossibile dare le etichette. Esiste il cinema e il non-cinema. Il primo rimane una delle armi più efficaci per combattere l’immobilismo e la rassegnazione».
Un attore ha il dovere di esporsi politicamente?
«Le scelte politiche vanno fatte nella vita. Sul set bisogna difendere i diritti civili, cercare le verità occultate, insomma tenere alta l’attenzione».
Cosa pensa della mobilitazione anti-molestie?
«Le attuali battaglie diventeranno cultura e serviranno alle prossime generazioni, sia maschili sia femminili, per cambiare le cose e sconfiggere gli abusi sessuali che sono abusi di potere».
E il cinema italiano, visto dal di dentro, come sta?
«La creatività non è mai stata in crisi. Dobbiamo sganciarci dall’idea che gli altri siano più bravi di noi perché hanno più soldi. Il pubblico deve sapere che c’è un cinema italiano senza bisogno di ricreare lo star system».
Ma esiste già e lei ne fa parte.
«Mai pensato di essere una star. Prendo i mezzi pubblici come tutti».