Corriere della Sera, 4 giugno 2018
L’uomo che tenne in braccio Bobby. «Mi sussurrò: stanno tutti bene?»
WASHINGTON Un ragazzo messicano regge la testa del senatore morente. Sulle mani di Juan Romero, 17 anni, il sangue di Robert Kennedy, steso a terra, colpito dalle pallottole di Sirhan Sirhan. Il 5 giugno del 1968 la grande Storia si ferma nella cucina dell’Ambassador Hotel a Los Angeles. Il retrobottega non contemplato dal programma, nella serata trionfale per il candidato alla presidenza degli Stati Uniti.
Il quarantaduenne Bob aveva appena stravinto le primarie chiave: l’America, una certa America voleva un altro Kennedy alla Casa Bianca. Romero faceva parte di «quella» America. Era arrivato con i genitori negli Stati Uniti quando aveva dieci anni dalla cittadina di Mazatan, nel Chiapas, sud del Messico. Ora vivevano nei sobborghi più poveri di Los Angeles.
Nel 1968 il Paese era lacerato dalle rivolte. Juan frequentava la Roosevelt High School, ma il padre gli impedì di partecipare alle manifestazioni studentesche. Servivano soldi per la famiglia, invece. Il giovane trovò un posto da lavapiatti all’Ambassador e dopo un po’ diventò «busboy», aiuto cameriere.
A cinquant’anni di distanza il signor Juan Romero, oggi 67 anni, ancora in pista come operaio asfaltatore, ha ripreso in mano la celebre foto del reporter Boris Yaro del Los Angeles Times che lo ritrae in ginocchio, da solo, con il palmo destro sotto la nuca di Kennedy. Per la prima volta ha raccontato quei momenti prima nel documentario «Bobby Kennedy For president», diretto da Dawn Porter e trasmesso da Netflix e poi anche all’Associated Press: «Il senatore era arrivato in albergo il 4 giugno. Stava sempre chiuso in camera con i suoi collaboratori. Ordinarono la cena e io fui incaricato di portarla. Quando entrai nella stanza vidi il senatore in piedi girato verso la finestra, mentre parlava al telefono. Terminò la chiamata e venne verso di me. Non ho mai dimenticato il modo in cui mi strinse le mani. Mi fissò diritto con gli occhi penetranti, come se volesse dire: “Sono uno come te. Siamo persone per bene”. Non stava osservando il colore della mia pelle, non la mia età, per lui ero semplicemente un americano. Uscii convinto di aver appena incontrato il futuro presidente degli Stati Uniti».
Ed ecco la grande notte dei risultati in California. La hall dell’hotel era strapiena di felicità. Bob tenne un breve discorso, ma era ora di andare: tv e reporter aspettavano per la conferenza stampa. Bisognava spostarsi dall’altra parte dell’edificio ed è a quel punto che Kennedy decise di passare dalle cucine. Voleva salutare i cuochi, i camerieri, i «lavoratori invisibili». Nel documentario di Porter si vedono i volti stupiti delle donne ai fornelli. C’era anche Juan: «Penso che mi riconobbe; si fermò un attimo a conversare con me. In quel momento un uomo corse verso di noi e cominciò a sparare. Ho cercato di soccorrerlo, ma non sapevo che cosa fare. D’istinto gli sollevai la testa da quel cemento così freddo. Muoveva le labbra, mi avvicinai e lo sentii chiedere: “Stanno tutti bene? Sì, andrà tutto bene”. Intanto arrivò la moglie Ethel e mi spinse via. In tasca avevo un rosario e lo misi tra le mani di Robert Kennedy».
Per diversi anni Romero è stato il bersaglio delle più ignobili teorie cospirative: complice di un complotto per assassinare la stella più brillante dei progressisti. «Invece, ancora oggi sono molto arrabbiato perché a Kennedy non fu consentito di guidare quell’America fratturata, di fronteggiare la povertà e le discriminazioni». Ecco che cosa ha detto il vecchio «busboy» alla figlia Elda, quando finalmente l’ha portata a vedere la tomba di Robert F. Kennedy, a Washington.