la Repubblica, 4 giugno 2018
Quel ragazzo che invoca il diritto al selfie osceno
È impossibile non restare interdetti guardando questa immagine. Stazione ferroviaria di Piacenza. Incidente. Un treno travolge e maciulla una gamba a un’anziana donna. I soccorritori accorrono. A pochi metri di distanza, sul binario tre, un ragazzino sui vent’anni vestito di bianco alza il cellulare e con quello che ormai è un gesto della contemporaneità si scatta un selfie assieme alla scena. Forse fa pure qualche gesto sconveniente. La cronaca puntuale di Giorgio Lambri, ieri su Libertà, ci informa di quel che è accaduto dopo: il ragazzino bloccato dalla Polfer e costretto, non senza discussione, «è un mio diritto!», a cancellare la foto dalla memoria del cellulare. Non gli accadrà altro: «Non sembra si possano configurare reati».Penali, forse no. Ma la condanna morale ci arriva già confezionata assieme alla notizia. “Barbarie”.La sentenza di lugubre voyeurismo narcisista è inappellabile. Ed è difficile criticare la Polfer che, al di là del reato, tutela da uno sguardo invadente la condizione di una persona che soffre. Si può dire altro? Sì, si può. Forse si deve, visto che questo non è altro che un caso su cento, mille, milioni.
Sulla scena degli attentati terroristici, degli incidenti stradali, sulle macerie dei terremoti, i selfie fioriscono. Ci vorrebbe una polizia dello sguardo con migliaia di agenti per evitarlo. Forse il problema va preso da un altro verso?L’ 8 ottobre 1941 un fotografo di Manhattan con pelo sullo stomaco, chiamato Weegee, fotografò le facce ilari di un gruppo di ragazzini di Brooklyn che guardavano il cadavere di un gangster locale appena freddato in un regolamento di conti. Col titolo “Il loro primo omicidio” trovate quella foto in musei coltissimi. Il riso compulsivo era, è ovvio, l’infantile reazione di difesa da un disagio. I ragazzini non ne hanno molte. Oggi, la tecnologia gliene offre qualcuna di più. La fotocamera del cellulare.
Persino per i grandi fotografi la lente è uno schermo che attutisce l’orrore. Il selfie, in più, consente di essere lì, ma girando le spalle. Come quando guardiamo un horror movie coprendoci gli occhi con le mani, ma solo un po’. Il selfie però gode di pessima fama, per un luogo comune difficile da sfatare è puro narcisismo, già riprovevole in sé, figuriamoci se applicato a una tragedia. Ma risolverla così è come non capire il riso esorcista e scaramantico dei ragazzini di Brooklyn.Entrambi dicono a sé e agli altri «io sono qui, ma non è successo a me». Egoista? Certo.Umanamente comprensibile?Forse anche.
Sdoganare i selfie dell’orrore, dunque? No, certamente. Per quanto faccia sempre più parte della nostra relazione col mondo, la fotografia conserva un aspetto predatorio, impertinente, aggressivo, che un adulto dovrebbe da solo saper tenere a bada. Un ragazzino? Ai ragazzini si insegna. Ma non tocca alla Polfer. Dove sono gli adulti, quando si parla di selfie?Altrove. I cellulari sono vietati a scuola, dunque per gli educatori il problema è risolto.E quindi abbiamo la risposta.
Fino a quando lasceremo soli i nostri ragazzi con il loro “diritto” a una macchina che impone la sua visione, non avranno altra scelta che obbedirle. Se poi crescono in una società che impone di vedere, ma non insegna a guardare, non hanno scampo. Attenti però. Se state rabbrividendo per quel selfie, è perché anche voi state guardando una fotografia di quella stessa scena. Ma una fotografia di cronaca, “autorizzata” dalla nostra cultura a invadere l’area del dolore, a fare cioè in modo più controllato, con le facce oscurate e la distanza, quel che diventa vergognoso se lo fa un ragazzino con le modalità della sua cultura visuale auto- appresa senza mediazioni. Forse dobbiamo ripartire da qui, dal riflettere a quali condizioni guardare sia un diritto, un dovere, un orrore o cos’altro.