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 2018  giugno 04 Lunedì calendario

Credito cooperativo, la riforma è a rischio. Servono 2,5 miliardi

Chi riveste quel ruolo è solito dosare le parole. Se sceglie toni netti è perché deve far capire che la situazione lo preoccupa. Di recente Ignazio Visco lo ha fatto due volte. La prima, il 16 aprile, di fronte a una platea di studenti: «Nel sistema delle banche più piccole ci sono vulnerabilità». Nelle considerazioni finali per il 2018 il governatore della Banca d’Italia è stato ancora più chiaro: «Per il settore del credito cooperativo procedere con le operazioni di aggregazione è una necessità urgente». Poco solide, poco redditizie, spesso (non sempre) poco solvibili o gestite con criteri poco trasparenti. Da nord a sud, di piccole e piccolissime commissariate o fallite negli ultimi anni se ne contano diverse. Dalla banca di credito cooperativo di Alberobello, alla «San Francesco», dalla calabrese dei «due Mari», all’Euganea di Ospedaletto fino al noto caso del Credito fiorentino di Denis Verdini.
In generale la potremmo definire una crisi a bassa intensità, che sfugge al radar della grande informazione. La legge che impone al sistema delle banche locali di unirsi e rafforzare il loro patrimonio risale a ormai due anni fa.
La moratoriaIl processo di riforma si è innescato ma c’è chi ha la tentazione di interromperlo. Lo scorso due maggio il senatore Alberto Bagnai e molti altri colleghi deputati e senatori della Lega, tra cui il leader Matteo Salvini, hanno chiesto ufficialmente una moratoria di 18 mesi. «Questa riforma è stata interessata da una deliberata eterogenesi dei fini», scrive la mozione. «Si sono abbandonati i principi di mutualità per far spazio alle ragioni del libero mercato, agevolando, anche in questo settore, investitori internazionali poco interessati allo sviluppo del nostro territorio». La mozione, sollecitata dalla più piccola delle associazioni del mondo cooperativo – la Agci di Brenno Begani – finora non ha raggiunto l’obiettivo. La riforma apparentemente procede, non senza difficoltà. Quale sarà l’atteggiamento del nuovo governo? Anche il nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti è contrario alla riforma, al punto da accettare di essere alla Camera il primo firmatario di una mozione fotocopia di quella presentata al Senato. Cosa ne penserà il nuovo ministro del Tesoro Giovanni Tria?Maurizio Gardini, presidente della più grande centrale cooperativa – Confcooperative – difende quanto fatto fin qui. Modello mutualistico«È vero, l’Europa e la vigilanza unica hanno deciso che la taglia delle banche italiane debba essere la stessa per tutte, ma quello trovato con questa legge è un buon compromesso, e riconosce l’unicità del modello mutualistico. Tornare indietro sarebbe una follia. Proprio perché vicino ai territori, molte di quelle banche sono esposte finanziariamente. E il sistema ha bisogno di rafforzarsi». Il modello mutualistico, pietra angolare del sistema delle cosiddette «Bcc», fa sì che le crisi vengano risolte «in casa». Se una banca è in difficoltà, interviene la vicina più solida e la incorpora. Ma la crisi, con l’aumento delle sofferenze, ha moltiplicato i salvataggi e il modello ha mostrato tutti i suoi limiti. La somma di molte debolezze non fa una forza. In una prima bozza la riforma imponeva la creazione di un solo gruppo, oggi ne permette sino a tre: uno ruoterà attorno ad Iccrea, con sede a Roma, e riunirà 145 banche del centro-sud; un secondo riunirà le 95 casse del nord-est e trentine – Cassa centrale – una terza, Raiffeisen, raccoglierà le 39 piccolissime casse di valli e montagne sud tirolesi. Ciascuna banca resterà autonoma, ma di fatto sarà governata da un’unica grande entità. La legge prevede che il 51 per cento del capitale del nuovo gruppo resti nelle mani del sistema cooperativo, e che il patrimonio complessivo non sia inferiore al miliardo di euro. La parte difficile inizia qui. Tra Roma e FrancoforteLe voci che filtrano da Banca d’Italia e Banca centrale europea raccontano di problemi nel dialogo fra le due istituzioni. La ragione è intuibile: la prima vigila le piccole banche che devono aggregarsi, la seconda ha il compito di stabilire quanto forte dovrà essere il gruppo che verrà costituito, perché a quel punto i nuovi soggetti diventeranno «rilevanti» e dunque sottoposti ai controlli di Francoforte. Secondo le stime circolate nelle scorse settimane e riportate nella mozione parlamentare citata sopra, a Cassa centrale mancano 700 milioni di euro, ad Iccrea ben 1,8 miliardi. Per avere capitale fresco servirebbero uno o più soci, ma chi può voler entrare in una galassia di istituti che, prima della fusione, sono caratterizzati da bassa redditività, scarsa capitalizzazione, molte sofferenze e governance non eccellente? Proprio l’arrivo di nuovi grandi soci è lo spauracchio agitato da chi si oppone alla riforma, in nome della perdita del legame col territorio.Tempi lunghiSulla carta, tempo per fare le cose e farle bene non manca. Per vedere la riforma pienamente realizzata sarà comunque necessario aspettare il 2019. Inoltrate a inizio maggio le richieste di autorizzazione per la creazione dei nuovi gruppi, ora sono scattati i 120 giorni previsti dalla legge per dire sì o no. Anche qui non mancano le complicazioni. Per Iccrea, la più grande, l’autorizzazione arriverà dalla Banca centrale europea sentita la Banca d’Italia. Per Cassa centrale il percorso sarà inverso: è la vigilanza di Roma che dovrà rilasciare l’autorizzazione sentita quella europea di Francoforte. Una volta ottenuto il via libera, le banche aderenti avranno novanta giorni di tempo per convocare le assemblee. Tre mesi entro i quali dovranno arrivare ai regolatori i contratti firmati da tutti i partecipanti. In tutto sette-otto mesi a partire da oggi, che spingono il calendario a gennaio 2019. Salvo che – fanno notare da Bankitalia – non arrivi qualche interruzione del processo o uno stop. L’allusione ai propositi leghisti è fin troppo evidente anche se non esplicitata.Lo scossone dei mercatiL’urgenza a cui ha alluso Visco non è infondata. Gli scossoni dei giorni scorsi sul mercato dei titoli di Stato hanno destato più di una preoccupazione in un sistema con portafogli sbilanciati sui Buoni del Tesoro (vedi grafico), ancor più del sistema bancario nazionale che proprio in questa voce ha uno dei suoi punti di debolezza, come ha mostrato il crollo recente dei titoli del settore a Piazza Affari. La «vecchia» Iccrea holding è la banca di gran lunga più esposta sui titoli di Stato in rapporto al capitale di migliore qualità (il cosiddetto Cet1). Bot e Btp pesano per oltre il 600 per cento del capitale, secondo i dati a fine 2017 raccolti dall’istituto francese Ieseg. Se la turbolenza sui mercati dovesse continuare, i regolatori potrebbero chiedere ancora più capitale o la vendita dei titoli in portafoglio.
«Non c’è alternativa alla riforma», dice un importante banchiere italiano sotto la garanzia dell’anonimato. «La retorica del “piccolo è bello” e del radicamento territoriale non funziona più. La verità è che senza la nascita dei due gruppi, la maggior parte delle Bcc ha numeri tali da non poter restare sul mercato. Margini e utili risicati, sofferenze elevate, poche risorse per effettuare investimenti e seguire l’innovazione del settore sono i principali fattori di rischio». La nascita dei due gruppi non farà comunque svanire le incognite. «Ad esempio, vedo qualche complicazione nel governo di quei gruppi. Di fatto saranno al vertice holding controllate da una base piuttosto variegata. Siamo sicuri che funzionerà?» Alla Banca d’Italia e alla Bce se lo augurano tutti.