il Giornale, 4 giugno 2018
«Canto dalla Sputnik, sono cresciuto nella Guerra Fredda». Intervista a Luca Carboni
Prima ci pensa su, Luca Carboni, poi risponde. Sempre così. Anche adesso che sta per pubblicare uno dei suoi dischi più convincenti di sempre, Sputnik, in uscita l’8 giugno, è pacato come chi sa di aver detto nelle proprie canzoni tutto ciò che voleva dire. In fondo nella nuova Amore digitale lui canta che «non è un caso se non dico mai tante parole». Però trentaquattro anni dopo il suo disco d’esordio, conferma di restare sempre uno dei più cantautori più attuali: «Ascolto sempre la musica che gira intorno, stavolta ho anche voluto come Calcutta, che è di fianco a me in Io non voglio, o il romano Flavio Pardini in arte Gazzelle, che si ascolta in L’alba». Dopotutto Luca Carboni ha già collaborato con i rampanti Stato Sociale nel loro nuovo singolo Facile e non è mai stato uno chiuso nella torre d’avorio del cantautore snob, nonostante da metà anni Ottanta in avanti «non sbagli un disco» (parafrasando il titolo del suo primo album...Intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film). «Dice che mi devo preoccupare?», scherza. Tutt’altro.
Però forse si dovrebbero preoccupare i chitarristi visto che in Sputnik ci sono pochissime chitarre.
«Sì rispetto al disco precedente, Pop up, ce ne sono molte meno e ho privilegiato la programmazione elettronica. Ma non è una questione di principio mia o del produttore Michele Canova oppure del maestro arrangiatore Christian Rigano».
Disco breve, solo nove canzoni, ma molto mirato. E il primo singolo, Una grande festa, è subito diventato il più trasmesso dalle radio. Tra l’altro con due versi iniziali molto controcorrente: «Parlare della sfiga proprio non si può. E la morte non è mai stata un argomento pop».
«Il pop ha delle regole e mi piace reinventarle».
Ma è superstizioso?
«Non direi. Però faccio il segno della croce prima di andare in scena».
A proposito, quando ritorna sul palco?
«Inizio a ottobre al Vox di Nonantola. Mi piace partire con i piccoli club dove si può godere la festa e avere anche momenti rock. Poi vedremo».
Il suo pubblico più giovane magari non si ricorda dello Sputnik, il primo satellite mandato nello spazio nel 1957.
«Mi piace l’idea di guardare il mondo da lontano, come se fossi su di un satellite. Ho disegnato anche la copertina, con lo Sputnik sovietico e la Chevrolet americana quasi a simboleggiare due mondi frontali. Come tutti i miei coetanei, sono cresciuto in piena Guerra Fredda».
Ma non è diventato un «cantautore politico».
«Anzi, sono sempre stato in contrapposizione con i cantautori ideologici che ascoltavo da ragazzino».
Il suo scopritore Lucio Dalla non lo era.
«A volte ascoltavamo i brani in radio e, se i versi non ci piacevano, li modificavamo a braccio. Magari li peggioravamo, ma lì ho imparato sempre a tentare di andare oltre».
Infatti nel 1992 è stato il primo a «sdoganare» il rap di Jovanotti con un tour che andò benissimo.
«E poi il mio brano con Fabri Fibra, ossia Fisico & politico del 2013 è stato il padre di questi ultimi due dischi. A me è sempre piaciuto il rap, anche se è lontano da ciò che faccio».
In fondo Luca Carboni è uno dei pochissimi cantautori «superstiti» degli anni Ottanta.
«Sì, ci sono ancora Luca Barbarossa e pochi altri. Ricordo che quando ho iniziato alla Rca, i discografici non volevano nuovi cantautori perché in quel momento andavano le band».
Oggi i ragazzi li ascoltano di nuovo.
«Nuovi nomi come, appunto, Calcutta o Gazzelle. Anche mio figlio, che ha 19 anni passa tante ore con le cuffiette nelle orecchie. Ma, vuole che le dica?, non mi dice mica che cosa ascolta...».