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 2018  giugno 04 Lunedì calendario

«Basta con il modello delle veline». Intervista a Mia Ceran

“Quelli che… vanno in vacanza”: archiviati i successi della stagione appena conclusa – Quelli che il calcio e Quelli che… dopo il Tg, entrambi su Rai2 e condotti insieme con Luca e Paolo –, Mia Ceran pensa solo ai “programmi” per l’estate, “dopo anni di lavoro no-stop”.
Neanche 32enne, è una delle protagoniste della tv: sente qualche responsabilità?
La responsabilità è individuale, non rapportabile agli altri. Ci sono tante persone che stimo in tv, ma sono restia a fare confronti, anche perché ciascuno arriva in un determinato periodo, in un preciso contesto. Poi c’è il dovere di preservare la propria originalità: non penso a che figura voglio essere, ma solo a fare bene il mio lavoro e somigliare, quanto più possibile, a me stessa.
Lei è giornalista ma anche conduttrice, donna di spettacolo: la prima è sacrificata alla seconda?
C’è tutta una parte della mia giornata che è identica a dieci anni fa, quando ho iniziato a fare il praticantato: mi sveglio, leggo i giornali, ascolto la rassegna stampa di Radio Radicale. Questo è il mio contributo al programma, non essendo io un comico e non pesando su di me l’onere di far ridere – che è un mestiere difficilissimo – sono felice di non farlo.
Che idea si è fatta del suo pubblico?
Mi rendo conto che gli spettatori recepiscono un prodotto diverso rispetto a quando facevo un servizio al tg o una trasmissione di politica. Quello che ancora mi stupisce, però, è che io abbia metabolizzato questa transizione mentre, 9 volte su 10, chi mi ferma per strada mi dice: “Ah, lei è la giornalista della Rai”. La parola “giornalista”, da un lato, mi inorgoglisce, perché è il mestiere che ho studiato e che ho sempre voluto fare; dall’altro, mi fa capire che un certo aplomb veicola credibilità.
In Italia i tempi sono maturi per l’infotainment?
Il principale strumento di informazione di una televisione sana non può essere un programma satirico: deve esistere un telegiornale, un approfondimento, ma poi ci può essere altro. Infotainment è anche partire da una notizia e renderla leggera, commestibile. I dati confermano questo desiderio del pubblico: la fascia che ci segue è raddoppiata, conta circa 1,2 milioni di persone.
Si dibatte molto dell’esiguità delle opinioniste sulla carta stampata. Anche in tv c’è sperequazione tra firme maschili e femminili?
Temo che sia anche una questione generazionale: sono figlia di una donna che ha combattuto più di me, mentre io sono entrata in un mondo che ha ancora figure maschili forti, ma anche molte donne di riferimento. Io non mi sono mai concentrata sulla differenza di genere, quanto sull’impegno, sulla professionalità. Secondo me la questione femminile è altrove: non tanto sul posto di lavoro, ma su quanto lo Stato metta le donne in condizione di lavorare se hanno figli, il tipo di sostegno che dà, se crea asili, incentivi.
Dal documentario della Zanardo al #MeToo sono passati dieci anni: l’immagine della donna in tv è ancora quella della velina?
Innanzitutto, il pensiero che la dirigenza televisiva abbia imposto il modello della velina è fuorviante e non tiene conto di quello che sta accadendo: ormai questa figura stereotipata è quasi scomparsa. Siamo noi spettatori che, per primi, ci siamo stufati.
Le è mai capitato di subire pressioni politiche a Mediaset, a La7 o in Rai?
Ho sempre potuto dire ciò che ritenevo giusto dire.
Lei è nata in Germania, cresciuta tra l’Italia e gli Stati Uniti ed entrata in tv a soli 19 anni alla Cnn: quanto le è stata utile la sua formazione cosmopolita?
Forse è la componente fondamentale. Quando ho iniziato a lavorare volevo solo fare trasferte, volevo conoscere il Paese: l’Italia ha questa grande ricchezza, che non ho trovato altrove, per la quale ci si sposta di 150 metri e si parla un’altra lingua, si mangia un altro cibo. C’è una piccola parte di me che si sente ancora straniera, però ho fatto la scelta profonda e consapevole di rimanere qui.
Le manca la vita dell’inviata?
Tutti i giorni. Ogni volta che vedo un collega sul campo mi viene voglia: l’emozione della trasferta, la relazione con la troupe, le persone che incontri, il viaggio… Condurre mi piace tanto, ma mi manca quell’esplorazione perpetua che è un po’ la cifra della mia biografia.
Nessun progetto quindi?
L’anno prossimo è tutto da scrivere: ho imparato che la televisione non permette di fare programmi, ed è il suo bello. Non so dire dove sarò tra uno o cinque anni. Gli inglesi hanno una bella espressione: Bend like a river bend, cioè piegati dove va il fiume.
È nel toto-Festival del prossimo Sanremo.
Ah sì? Non escludiamo mai nulla, nel bene e nel male.