Il Messaggero, 4 giugno 2018
Vita, pugni e opere di Mario Brega, il cattivone con la faccia da buono
Non amava i salotti, li trovava noiosi, ma si atteggiava a Casanova, seppur con una certa democraticità di gusto, e tra le sue conquiste vantava anche una giovanissima Gina Lollobrigida. Adorava invece le macchine di lusso, i vestiti eleganti e i locali di Via Veneto, soprattutto l’Harry’s Bar, dove ai tempi della Dolce Vita era solito importunare celebri registi seduti al tavolino: «Maestro, me faccia prova’». Inoltre aveva il vizietto di alzare le mani. Nella vita reale, dove mai bisognava contraddirlo, ma anche sul set, dove una volta malmenò il povero Gian Maria Volonté, colpevole a suo dire di non avergli pagato un debito di gioco contratto in una partita a poker durante una pausa di lavorazione.
Il suo vero nome era Florestano ma tutti lo chiamavano Mario o Er Principe. «Io so Mario Brega», diceva con spavalderia quando si doveva presentare. Nato nel 1924, figlio di un ex atleta olimpico, aveva fatto il fuochista e il fattorino sugli autobus in epoca fascista, sul finire degli Anni 30, ma già da ragazzino aveva deciso de «fa’ er cinema» e negli Anni 60 divenne uno dei più grandi caratteristi italiani, alla pari di Mario Carotenuto o del cumenda brianzolo Guido Nicheli.
LA BIOGRAFIA
A raccontare la sua storia a 24 anni dalla scomparsa, approfondendo aspetti poco conosciuti e muovendosi con disincanto tra le numerose leggende che lo circondano, ci ha pensato Ezio Cardarelli, con una biografia appena uscita che già dal titolo rende perfettamente l’idea del personaggio: Ce sto io, poi ce sta De Niro (Ad Est dell’Equatore Editore), espressione che Mario Brega utilizzava quando qualcuno gli chiedeva chi fossero gli attori presenti in C’era una volta in America. Raccontano che De Niro, che una sera si ritrovò a mangiare pasta e fagioli dalla sorella dell’attore romano in compagnia di Sergio Leone, fosse diventato uno suo grande estimatore al punto che provò a convincerlo a trasferirsi in America. Da Roma, naturalmente, Er Principe non si era mai mosso, ma quell’atteggiamento sbarazzino, la sua corporatura imponente e quell’espressione al tempo stesso truce e bonaria («sta mano po’ esse fero o po’ esse piuma») gli avevano permesso di lavorare con i migliori registi, da Germi, a Risi, da Salce a Scola, anche se i maligni hanno insinuato che parte del suo successo fosse dovuto alla amicizia con Sergio Leone, che lo rese popolare nel 1964 con Per un pugno di dollari, il primo western all’italiana. «Mi prese perché facevo il cattivo ma avevo la faccia da buono», raccontava Brega.
Fu però Carlo Verdone, che lo aveva conosciuto per caso proprio a casa di Leone mentre discuteva del soggetto di Un sacco bello, a trasformarlo nel personaggio del coatto romano ante litteram. Mario era «furbo, svelto, intelligente, spavaldo, un po megalomane ma generoso – ricorda Verdone – uno che dalla strada poteva urlarti: A busciardo! M’avevi promesso venti pose e mo’ me ne fai fa’ cinque? Scenni che parlamo!».
SET E VITA VERA
Come avvenne anche per altri caratteristi, la forza di Mario Brega fu quella di trovare una corrispondenza diretta tra realtà e finzione. Non a caso si narra che la famosa scena di Borotalco in cui racconta a Verdone, fidanzato della figlia, con toni concitati («Arzate a cornuto, arzateee»), una lite avvenuta giorni prima, era realmente accaduta negli anni 60, quando era stato artefice di una scazzottata con l’attore americano Gordon Scott durante la lavorazione del film Buffalo Bill, l’eroe del Far West. Non ci sono prove che sia andata realmente così, ma ci piace crederlo.