Il Messaggero, 4 giugno 2018
Pasolini, De Concini e i Promessi Sposi
«Nel 1960 scrivemmo un trattamento dei Promessi Sposi, per Ponti. L’idea entusiasmò Pier Paolo che adorava il Manzoni. Iniziammo la storia vent’anni dopo, Renzo e Lucia vivono con figli già grandi e le tribolazioni non finite, in paese circolano strane chiacchiere su Lucia». Sono ricordi di Ennio De Concini, raccolti da Jonathan Giustini in una conversazione di mesi, continuamente interrotta e ripresa (Chi si ferma è perduto – Ennio De Concini: memorie di un fallito di successo. Jacobelli editore).
E ora a distanza di venti anni recuperata da Giustini, interlocutore mite, avvolgente, a suo modo implacabile nel non mollare mai la presa, nello stupirsi dinanzi alle perle che affiorano, ricordi, sensazioni, situazioni, un’infinita aneddotica e schegge di storia del cinema. De Concini racconta la sua vita, i film, i viaggi, le considerazioni su quella vita operosissima, sui film che ha ideato, sceneggiato, a volte solo annusato, sfiorato, avviato con una sola idea, un contatto, un rapporto, un incontro, una telefonata, saltando da un gruppo di sceneggiatori a un altro.
LE TAPPE
Pasolini e il progetto manzoniano. «Veniva a trovarmi nella mia casa, tenace, impaziente; a volte, vincendo la sua ritrosia, mi parlava anche della sua vita amata. Un uomo divorato come da una ferinità verso la vita: lavorava come un pazzo, scriveva, amava, s’innamorava». L’incontro è tra uno sceneggiatore che proviene dal circolo dei monsignori, poeti e scrittori, raccolti intorno alla Fiera letteraria, ma ormai identificato nel linguaggio filmico, firma ricercata e paratissimo, alla vigilia dell’Oscar con Divorzio all’italiana. Suo collaboratore uno scrittore, anch’egli già affermato, anche se attraverso lo scandalo provocato da Ragazzi di vita che considera il cinema una «narrativa più profonda», in grado di intrattenere un rapporto diretto, non mediato con la realtà. Anche per lui quella è una vigilia: esordirà come regista dopo pochi mesi, con Accattone.
Di fronte al soggetto sorgono due problemi. Come affrontano De Concini e Pasolini i temi manzoniani? È possibile distinguere il contributo dell’uno da quello dell’altro? I promessi sposi di De Concini e Pasolini montano e smontano le scene del romanzo incastrandole dentro un’invenzione che giustifica il film da fare, e mai fatto, conferendogli un ritmo assai singolare.
LA PROSPETTIVA
Tutto è rivisto vent’anni dopo, con Renzo e Lucia che non possono godersi la tranquillità coniugale. La gente chiacchiera su Lucia («bella, ma...») La famigliola decide di trasferirsi in una filanda dietro Bergamo. Gli eventi sono raccontati da Renzo in un clima di reverie, in cui scorrono gli episodi ora con ritmo picaresco, ora con toni più drammatici. E l’intera vicenda è spezzata dal gioco dei flash-back che permette di cogliere quella sorta di iato tra il tumulto del passato e l’idillio contadino, recuperato come mito sempre attivo e corroborante, l’apparente serenità raggiunta dalla famiglia di Renzo e Lucia. Attraverso Renzo, Pasolini forse rievoca il proprio passato con il tono del naufrago che finalmente è approdato a riva.
«L’aria era dolce e tenera, il rumore sommesso delle ruote del carro nella polvere, il caldo, il viso attento dei bambini che non smettono di mangiare», leggiamo nel soggetto. Si potrebbero pensare scritti da Pasolini gli episodi quelli appartenenti al viaggio di Renzo e Lucia. E pensare scritti da De Concini gli episodi più direttamente avventurosi e d’azione. In tal modo si potrebbe capire meglio la sensazione che nasce dalla lettura del soggetto, un testo destinato a un altro trattamento di sceneggiatura che non c’è stata. Da un lato affiora l’aspirazione alla purezza, a una (molto pasoliniana) nudità semplice e religiosa; dall’altro il vorticoso intrecciarsi di uomini e di destini secondo un tratto di consumata velocità, che è del nostro miglior cinema popolare, rappresentato da De Concini.
UN MANUALE
Chi si ferma è perduto, così, è un singolare e quasi involontario manuale su come si è fatto e si è consolidato quel suo mestiere così unico di sceneggiatore, uomo di cinema, consigliore, le occasioni, i trucchi, l’impegno, il disincanto. Un mestiere che ha permesso a De Concini di disseminare la sua presenza nei mille rivoli della sua prodigiosa carriera di mercenario lasciandosi alle spalle quasi duecento copioni vampirizzati dalle sequenze filmiche, muovendosi tra Antonioni e Francischi, tra Brusati e Matarasso, tra Rossi e i film a sfondo romano, quei sandaloni che portano dall’ideazione alla realizzazione il suo marchio di fabbrica con la moltiplicazione della sua presenza e della firma.
Il destino di un fallito di successo, un altro dei traditori passato dalla letteratura al cinema, come diceva di lui Cecchi all’esordio del suo inatteso e poi folgorante ingresso nel cinema. Un fallito e un traditore che si è fatto largo con lo straordinario talento di costruttore di storie fra la Roma mecca del cinema anni 50, l’ex Urss anni 60, l’Inghilterra ombelico del mondo anni 70. con i ricordi di incontri straordinari. Il metodo di Giustini è un tenace accerchiamento maieutico, chiede, suggerisce, ancora si stupisce, aggira il dubbio o il lapsus della memoria, ripropone, fiuta una pista e la segue con pazienza, sa non dimenticare e, al momento opportuno, la ripropone quasi candidamente o con stupore. E così affiorano ricordi di incontri straordinari, Orson Welles «cocente delusione», Stanley Kubrick maniaco della perfezione», Ken Adam «straordinario set designer del mondo», Peter Sellers «attore fra i più geniali».