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 2018  giugno 03 Domenica calendario

Dalla Russia senza amore. In tv torna The Americans

Come se mi avessero tolto un peso dalle spalle. Joe Weisberg, creatore di The Americans, descrive il suo stato d’animo alla fine della serie, andata in onda una settimana fa in Usa, mentre in Italia l’ultima stagione arriva domani su Fox. «Fino all’ultimo ho avuto gli incubi: e se roviniamo tutto?», dice durante un incontro al Ifc Centre di New York, seduto accanto a Joel Fields, produttore esecutivo e compagno di scrittura di Weisberg: hanno scritto i 75 episodi sempre a quattro mani. I finali sono sempre faccenda complicata, fatti apposta per scontentare tutti. Non questa volta. Tutti soddisfatti, pubblico e critici entusiasti: negli Usa già si dice che a The Americans spetta un posto nell’olimpo dei grandi, con I Soprano e Breaking Bad, storie di anti eroi al confine tra bene e male. «Non sono sicuro che i nostri protagonisti siano anti eroi: sono eroi, solo che lo sono dalla parte sbagliata o, almeno, da quella che noi consideriamo nemica».
Nata nel 2013 dall’idea di Weisberg, che in curriculum vanta anche una permanenza nella Cia, The Americans per sei stagioni ha raccontato le vicende di due spie del Kgb, Philip (Matthew Rhys) e Elizabeth Jennings (Keri Russell), così integrati nell’America di Reagan che il loro vicino di casa e amico Stan Beeman, agente dell’Fbi, si accorge di nulla. «Sei anni fa, quando andammo in giro a proporre l’dea di una serie su due spie russe, ci risero in faccia». Nessuno poteva prevedere che la rivalità con la Russia sarebbe tornata di attualità, con l’amministrazione del Presidente Trump sotto indagine per collusione con il nemico. Un’attualità che ha reso lo show più rilevante che mai, ma ha anche rischiato di comprometterlo.
«C’era il rischio che la nostra storia sembrasse suggerita dall’attualità, mettendone a rischio la credibilità visto che gran parte del nostro sforzo era convincere gli spettatori che l’ambientazione era nel passato». «Abbiamo scritto come dentro a una bolla, facendo finta di non sapere gli eventi futuri, neanche la caduta del muro di Berlino», fa eco Fields.
Iniziata all’epoca di Reagan, nella sesta stagione la serie si sposta a fine Anni 80, quando al potere arriva Gorbaciov e con gran parte degli episodi centrati sul Summit del 1987 a Washington, un evento che procura ancora più problemi tra Philip e Elizabeth, il primo ormai disaffezionato alla vita da spia e al Paese d’origine e la seconda sempre fedele e spietata come il primo giorno. «Mi sono trovato spesso a dover difendere Elizabeth – racconta Weisberg -. All’inizio era considerata un mostro, poi, con l’andare del tempo è diventata quasi una femminista, rispettata dalle donne che in lei vedono una madre e una donna che lavora».
«È sempre bene ricordare che dietro le notizie di attualità esistono persone in carne e ossa», dice Keri Russell. Candidata al Golden Globes nel 2017, potrebbe vincerlo quest’anno. Per lei, sei anni nei panni di Elizabeth sono stati sufficienti. «Quello che sta succedendo in politica col Russiagate è un momento complicato, quindi è bene giungere a una conclusione». Per Matthew Rhys il fatto che The Americans sia diventato nelle ultime due stagioni ancora più rilevante è quasi una vendetta: «Il primo anno c’erano molti dubbi e alcuni giornalisti ridicolizzarono l’idea che l’interesse della Russia per gli Usa fosse argomento ancora interessante, mentre oggi hanno tutto il diritto di dire: ve lo avevamo detto!».
Compagni nella vita dal 2013 grazie al set, Russell e Rhys sono soddisfatti del destino scritto per loro. Dice Weisberg: «Il finale lo abbiamo deciso all’inizio della seconda stagione ed è sempre rimasto uguale». «È sorprendete e straziante allo stesso tempo – ribatte Rhys -. Quando ho letto il copione ho pianto: è un finale in cui ognuno di noi si può identificare”.