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Tutto il mondo teatrale di Chiara Guidi — una delle fondatrici della “ Societas Raffaello Sanzio” — si può misurare col sentimento di una voce che cresce, si dilata, si contrae, muore e rinasce. Una voce che moltiplica i suoi effetti sonori e che rende la protagonista di questa storia qualcosa di unico. O almeno di unico nell’ossessione di una sperimentazione senza fine. Del resto, cos’è il teatro se non anche una voce vestita di un corpo, di una forma, di un destino che cerca una casa, un luogo in cui riparare, una scena su cui manifestarsi?
Ho letto, quasi per caso, La voce in una foresta di immagini invisibili (edito da nottetempo) che la Guidi ha dedicato al proprio lavoro teatrale, come fosse una favola che interroga le nostre paure ma altresì suscita la nostra attrazione per qualcosa che la ragione non sa spiegare. E ho concluso, forse arbitrariamente, che una donna (un’autrice, una teatrante) intelligente, colta, spiritata nei propri pensieri rarefatti fosse ormai giunta alla fine di una ribellione alle leggi ordinarie del mondo fondate sul calcolo, sull’utile, sul conforme. E che in tutto questo patire e combattere vi entrasse uno speciale rapporto con l’infanzia, come se in quell’età si rivelasse qualcosa di inaudito per l’adulto. Se oggi i bambini sembrano non avere futuro, Chiara prova a dar loro una voce che sia la loro voce, simile forse al suono animale e perciò stesso libero dalle convenzioni, dal biasimo o dalla pietà dell’adulto.
Perché questo interesse per la voce e l’infanzia? Cos’hanno in comune?
«Hanno in comune un’origine; o meglio un luogo nel quale i due momenti convivono senza attrito. Da un lato, l’infanzia che precede il linguaggio e la catalogazione dei concetti; dall’altro, la voce prima che venga educata, disciplinata, resa per così dire civile. Se c’è una cosa che mi commuove di questa voce “altra” è di essere come il canto di un uccello, il verso di una scimmia, il suono inudibile del pipistrello».
Allude all’animale che è in ognuno di noi?
«Al fatto che tra abbaiare alla luna e una poesia può non esserci alcuna differenza. Sono gli effetti di un artificio. Come il teatro, artificio per eccellenza. L’infanzia è in grado di vivere e comprendere meglio di altri mondi questa condizione “irreale”».
Non è l’infanzia la cosa più naturale che esista?
«Al contrario, è la più distante. Per un bambino o una bambina che giocano, un bottone sostituisce un soldato, una bambola prende il posto di una mozione d’affetto materno. Sono nella più evidente delle finzioni. Non c’è dunque niente di ingenuamente naturale nei loro gesti. È solo una lunga tradizione culturale ad aver creato l’equivoco bambini uguale natura. In un mio spettacolo a un certo punto irrompe sulla scena la morte con il lecca lecca e chiede ai bambini chi vuole venire con lei. Una bimba piange perché la sua amichetta ha accettato di andare nella terra dei lombrichi, cioè nella terra della morte. E io le chiedo: sai dove siamo? Siamo in teatro, risponde. Ma allora è tutto finto, osservo. Sì, è talmente finto che è vero, ecco perché piango».
È un teatro pedagogico quello a cui pensa?
«Al contrario, è un teatro che parte da ciò che si conosce per arrivare all’inconoscibile. Chi meglio di un bambino può essere il ponte tra queste due esperienze?».
C’è una differenza tra infanzia e follia?
«Di solito si prova ad accostare le due esperienze. Che per me restano incommensurabili. Il folle è troppo chiuso nel suo mondo per essere raggiungibile. Tocca un vertice di assoluta rottura. Mentre io non voglio la rottura. Quello che chiedo a me stessa nasce dall’essere oggi in questa società, in questo tempo che pone limiti a ciò che si guarda o si fa. Per questo sono giunta all’idea di una recitazione che scavi un vuoto nel testo, nelle parole. Non un vuoto zen, ma una cavità in cui si percepisce che le parole non si chiudono solo perché le ho comprese. Il folle non può darmi questa opportunità e neppure il mistico. Anche i bambini sotto i cinque anni sono irraggiungibili. È troppo vertiginoso il loro gioco per essere compreso».
Come è stata la sua infanzia?
«Ne ho un ricordo bello. Fin da piccola provavo ad allestire delle scenette teatrali. Per invogliare il pubblico compravo, con poche lire, delle caramelle e le offrivo. Perfino i miei genitori venivano a volte ad assistere agli spettacolini. Del resto, mio padre aveva un passato amatoriale».
Che cosa faceva?
«Il teatro era un hobby per lui. Per vivere svolgeva il lavoro di elettricista. Emigrò in Belgio. Fece fortuna. Tornò in Italia e aprì una serie di negozi di elettrodomestici. Quanto a me studiai, mi laureai a Bologna con Ezio Raimondi senza mai dimenticare la passione per il teatro».
A un certo punto, insieme ad altri, fonda il gruppo teatrale “Raffaello Sanzio”.
«Iniziò come un gioco tra amici, allestimmo una pièce di Ionesco. Formammo un gruppo di una ventina di ragazzi e a un certo punto qualcuno disse: chi ha il coraggio di proseguire per tutta la vita questo rapporto con il teatro? Aderimmo in quattro, più altri due che dopo un po’ si persero. E fummo noi quattro che all’inizio degli anni Ottanta fondammo la “Societas Raffaello Sanzio”».
Chi eravate?
«Due coppie di fratelli e sorelle: Romeo e Claudia Castellucci e Paolo e Chiara Guidi. Romeo divenne mio marito».
Non avevate grande esperienza teatrale.
«Provai a entrare all’Accademia di Arte Drammatica “ Silvio D’Amico”, portai uno spettacolo che fu valutato negativamente da Anna Miserocchi».
Cosa non le piacque?
«Fu un verdetto paradossale, disse: ti darò un brutto voto per non perderti. Ci restai malissimo. Ma la verità è che aveva pienamente capito che il mio, o meglio il nostro teatro rompeva certi canoni dell’insegnamento e a nulla sarebbe valso entrare in Accademia. A quel tempo conoscemmo Memè Perlini e per un periodo lavorammo con lui».
Che ricordo ha di Perlini?
«Era un uomo particolare, molto sognatore. Quel gesto ricorrente con cui si rigirava i baffi dava al suo largo volto un’espressione mediorientale. Aveva una grande versatilità che impresse nel suo teatro di avanguardia. Seppi tardi della sua depressione che lo avrebbe spinto al suicidio. Ma le figure fondamentali di quegli anni furono per noi Beppe Bartolucci e Franco Quadri».
Due critici teatrali.
«Due figure straordinarie. La prima volta che Beppe ci vide recitare, in un appartamento romano, decretò che eravamo orrendi. Ci saremmo assai depressi se, proprio in quella occasione, Perlini non ci avesse notato. In seguito Beppe tornò a vederci e colse nel nostro lavoro qualcosa di fortemente innovativo. A quello spettacolo, che mi pare si intitolasse
Persia, venne ad assistere anche il Living Theatre. In un certo senso fu la nostra consacrazione».
Allora il teatro d’avanguardia era soprattutto a Roma?
«Direi di sì, anche se noi venivamo da Cesena. Roma mi apparve disponibile, c’era un clima poco imbrigliato. Tutto era ben accetto, senza formalismi né pregiudizi. Oggi mi appare una città senza speranza né profezia. Non dissimile da molti luoghi urbani di questo paese martoriato». Una figura allora dominante fu quella di Carmelo Bene, il suo lavoro sulla voce servì ad ispirarvi? «Eravamo la generazione successiva a gruppi come “I magazzini criminali” a Firenze, “Falso movimento” a Napoli o la “Gaia scienza” a Roma. Protagonisti di quegli anni Settanta furono Federico Tiezzi, Mario Martone, Giorgio Barberio Corsetti. Ci sentimmo in qualche modo eredi di un teatro che erodeva l’idea stessa di rappresentazione. Quanto al talento di Carmelo Bene, era troppo autoreferenziale e imponente per poter essere approfondito senza correre il rischio di scimmiottarlo».
Intende per eccesso di sfarzo barocco?
«Il rischio era di lasciarsi catturare e sedurre dai suoi pensieri lussuosi e luttuosi. Mi affascinava che Carmelo avesse congelato il proprio timbro di voce. Ma quel “suo dire” si trasformò in una condanna. Nella sua prigione vocale. Straordinaria, certo. Ma improponibile fuori da quella particolare storia culturale».
La sua storia non le somiglia?
« In qualunque teatro ci possono essere corrispondenze più o meno segrete. Anche con quello di Bene. Penso all’importanza che io do all’udito più che allo sguardo. E questo rinvia al ruolo che la musica ha nel mio teatro come l’aveva in quello di Carmelo. Allo stesso modo posso dire che tanto a me quanto a lui piaceva il ruolo della finzione portata all’estremo. Ma con esecuzioni e finalità differenti. Per me, nel lavoro teatrale, è importante non far finta di fare ma fare qualcosa di finto». Ma alla fine che cosa significa una voce che assume su di sé tutto il peso della finzione? Come dobbiamo immaginarcela?
«Io immagino come una linea tracciata, con una sua evidenza e una direzione che non è per forza quella indicata dal testo».
Nel senso?
«Nel senso che la responsabilità della voce è di essere così finta da sembrare vera. Dunque non una voce al servizio del testo, perché l’eccesso di fedeltà al testo soffoca la voce, la smarrisce. A volte ho la sensazione che alcuni suoni della mia voce non mi piacciono perché troppo nasali e allora so che devo cercare in altre voci l’accordo più giusto. È come se la voce si staccasse da me e ne carpissi le vibrazioni al di là delle parole e del loro significato ».
Una voce allo stato puro?
«È ciò a cui l’attore dovrebbe tendere: un suono senza gravità eppure pesantissimo. Avevo 8 anni quando assistetti alla prima esperienza teatrale. Una compagnia venne a scuola e allestì lo spazio della palestra con delle grandi lenzuola nere per recitare alcune storie tratte dal libro Cuore. La voce flebile dell’attore mi si incollò all’orecchio. Quella voce era uscita da una stanza nera ed era venuta incontro a me che ero seduta tra le altre compagne di scuola. Senza dirlo a nessuno presi quella voce e la portai a casa. La rubai. Fu il mio primo incontro con una voce, il mio primo furto».
Ne parla come fosse un oggetto prezioso.
«In un certo senso lo è. Ci appartiene ma al tempo stesso è libero di posarsi dove vuole. Anche in modo tremendo».
Tremendo come l’episodio che racconta nel libro della morte di suo padre?
«Avevo 11 anni quando mio padre morì nel cuore della notte. Fui svegliata dal verso disperato dei suoi ultimi respiri. Sentii quella voce soffocata dal rumore della ricarica dell’ossigeno. In quel momento pensai a un animale più che a mio padre. Entrai nella stanza da letto dei miei genitori. E sentii mia madre che per chiedere aiuto batteva i pugni sulla parete. E lì, su quella scena drammatica, ho visto tutto il terribile confondersi in un suono, venirmi incontro. Come quella prima volta nella scuola, rubai quel suono».
Perché usa la parola rubare?
«Perché è qualcosa che non ci appartiene. L’ho capito affrontando Dante, che è un mettere alla prova la voce, ma anche chi se ne impossessa. È impossibile fare certe cose con Dante. La sua autorevolezza mi frena. E ho cercato un legame tra la voce umana e uno strumento musicale, in questo caso un violoncello, affinché i versi inattaccabili dei suoi endecasillabi fossero parole vissute e non imparaticce». La sua esperienza teatrale a un certo punto ha preso una strada diversa dai suoi antichi sodali. La compagnia si è sciolta. Perché?
«Forse il segreto è nel nome».
Cioè?
«Ci chiamammo “ Raffaello Sanzio” sia in omaggio alla donna velata del pittore, come l’invisibile si fa visibile; ma anche perché ci sovvenne il dramma della nave affondata. Insomma tra arte e tragedia. Anche la nostra compagnia è affondata. Romeo, mio marito, se ne è andato di casa e ha dato vita ad altro. Lo stesso ha fatto mio fratello Paolo. Avevo una certa idea di famiglia, di nucleo, di lavoro. Evidentemente non corrispondeva a quella degli altri componenti. Si ha diritto di cambiare, fare nuove esperienze. Pensi che monotonia avere sempre la stessa voce».