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 2018  giugno 03 Domenica calendario

Intervista a Abraham Yehoshua

Voi siete italiani, e per voi prima viene il territorio, che vi definisce: l’Italia. Poi c’è la cultura. Quindi la lingua. E tanti altri elementi che si basano sul territorio. Mentre per gli ebrei, nella nostra identità il punto di partenza è la Torah, il libro della tradizione religiosa ebraica. Una differenza, direi, fondamentale » . Abraham Yehoshua sta per arrivare in Italia. Sarà presente a Repubblica delle Idee a Bologna il 9 giugno. E il giorno dopo a Ferrara parteciperà alla prima Festa del Libro Ebraico, al Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah per tenere una lectio magistralis su “Il libro ebraico”. «Parlerò dell’importanza che il libro ebraico ha avuto nel corso dei secoli, ma anche dei suoi risvolti negativi...».

Partiamo allora dal primo concetto.
«Il popolo ebraico è nato con il libro. Nel deserto, mentre era in cerca, fra la diaspora e la terra dove si sarebbe stabilito. Che non a caso ha finito per chiamare “terra santa”. Ecco perché la nostra carta d’identità viene dal libro, e non dal territorio. Per voi invece è diverso, come ho detto ».
E l’altro lato della medaglia?
«Il libro ebraico, la letteratura, se vuole, al tempo stesso è stato un grande difetto. Perché noi a volte dobbiamo lasciare il libro, e andare incontro alla realtà e al confronto. Dunque il libro per noi è stato anche una barriera».
Ma da autore eminentemente laico, lei non riscontra oggi un’attenzione forte, da parte di molti intellettuali internazionali laici, verso le tematiche religiose?
«Ho notato questa tendenza a livello globale. E mi sembra che strumenti come i social, Internet e Facebook abbiano contribuito a sviluppare molto questo percorso».
Da che cosa dipende?
« La gente oggi vuole avere sempre più una relazione con il mistero, il sacro, il non conosciuto».
Un interesse marcato pure in scrittori che non possiamo certo definire puramente dediti a questioni religiose, come Emmanuel Carrère, registi come Paolo Sorrentino e Wim Wenders.
«Non c’è dubbio che ci sia una tendenza di ritorno alla religione. Nel cinema, nella letteratura, nell’arte. Per quanto riguarda gli ebrei la religione è molto importante, proprio perché collegata all’identità. Non trovo sia lo stesso, però, per i cattolici o i musulmani».
Quali altre differenze nota?
«A volte questa tendenza rischia di diventare estrema. In Israele gli ultraortodossi non c’erano quaranta anni fa se non nella forma di setta. Adesso su di loro vengono fatte persino delle serie in tv. Ma qui non si parla di sentimento religioso, ma di qualcos’altro».
Per il mondo musulmano?
«Anche i musulmani hanno una grande tensione verso la sfera religiosa. Ma per il mondo arabo oggi il vero problema è la modernità. Nel Medioevo la cultura, l’arte, l’architettura arabe erano all’avanguardia. Ma negli ultimi quattrocento anni hanno mostrato di avere difficoltà nel gestire cose come modernità e democrazia».
E per i cristiani, infine?
« Sono sempre stati di larghe vedute sulla cultura. E non c’è dubbio che quella cattolica sia stata la religione più tollerante verso l’arte, la cultura, la pittura. Quando vengo in Italia mi infilo subito in una chiesa per ammirare i suoi tesori».
Da laico lei oggi si è spostato a vivere a Tel Aviv, la città più turistica e frenetica di Israele. Perché?
«Per decenni ho abitato a Haifa. Mi sono trasferito perché a Tel Aviv abitano i miei figli, e i nipoti, e mi dedico anche a loro. È quello che ho deciso di fare dopo la morte di mia moglie, due anni fa».
A che cosa sta lavorando adesso?
«Posso annunciarle l’uscita della mia nuova opera. Un romanzo che si intitola Il tunnel ».
Il plot, in poche battute?
« È la storia di un ingegnere che costruisce strade. Ormai in pensione. E si accorge che la demenza senile comincia a turbarlo».
Quando uscirà?
« Fra circa un mese, in Israele. In Italia prima di Natale».