il Giornale, 3 giugno 2018
Emmanuel Carrère: «Così la letteratura mi ha salvato la vita»
A piedi nudi nel loft. Emmanuel Carrère apre la porta del suo appartamento parigino. «Attenzione al gradino». In effetti la casa è piena di gradini, piena di bianco, piena di luce, piena di tende svolazzanti; in bagno c’è la statuetta di un premio, sotto il tavolo trasparente i sandali Birkenstock, abbandonati lì. Per il resto lui è vestito in modo impeccabile, camicia in lino scura, pantalone a sigaretta. Molto bourgeois bohémien, categoria a cui oramai Carrère appartiene anche per collocazione geografica, dopo avere traslocato dal XVI arrondissement, la casa di famiglia, il quartiere dell’intellighenzia parigina, al X, a due passi dal Centre Pompidou e dai localini di Saint Denis. Sessantenne di successo, figlio dell’élite culturale (la madre, storica di fama, è segretaria perpetua dell’Académie française), autore di bestseller come Limonov e L’Avversario, è lo scrittore più famoso di Francia con Michel Houellebecq («lo ammiro molto: un grande scrittore, un vero romanziere», dice). «L’autobiografia – riflette – si muove fra due poli: glorificare se stessi oppure svilirsi». E così in lui, accanto all’autocompiacimento c’è l’autocritica, anche feroce (eredità di decenni di psicanalisi); come dimostra Un romanzo russo, pubblicato nel 2007, uscito in Italia prima per Einaudi e ora riproposto da Adelphi, con una nuova traduzione. Carrère intreccia la storia di un prigioniero di guerra ungherese rimasto in un ospedale psichiatrico russo per mezzo secolo, il passato da (presunto) collaborazionista di suo nonno, georgiano, il cui fantasma ossessiona la madre da quando sparì nel ’44 e una storia molto passionale con una ex, finita in disastro dopo avere pubblicato su Le Monde un racconto erotico (e molto imbarazzante) a lei dedicato.
È un libro in cui si mette molto a nudo.
«È molto autobiografico, sì».
Perché si è esposto così?
«In parte per caso. Tutto è cominciato con la storia di questo sfortunato soldato ungherese, che ho seguito per una rivista e una tv, facendo un primo viaggio a Kotel’nic. E lì ho avuto la sensazione che ci fosse qualcosa che mi interessava, ma non sapevo cosa. Passo dopo passo ho scoperto che stavo facendo un’indagine su questo personaggio, su quella cittadina, ma anche sulla mia famiglia e su di me. Quello che mi piace di questo libro è che le cose non sono state premeditate: ho seguito quello che succedeva, nella realtà e nell’inconscio».
È difficile raccontare cose vergognose di sé?
«Il problema non sono le cose vergognose che dici di te stesso, perché sei tu che scrivi. Il problema è quello che dici delle altre persone, perché rischi di ferirle».
Ha scritto molte cose su sua madre e sulla sua fidanzata di allora, Sophie. Come hanno reagito?
«Male. Mia madre mi aveva chiesto di non scrivere di suo padre, ma io l’ho fatto. Però qualche anno fa mi ha detto: hai fatto bene a scriverlo».
Dice cose molto crudeli.
«Sì. Ho scritto solo un libro come questo, e non credo, e spero, di non farlo più. Una regola nei libri è non ferire nessuno: essere uno scrittore non (...)
(...) ti dà questo diritto. Credo in quella regola, io. Ho fatto qualcosa che non approvo; ma l’ho fatto perché, anche se suona enfatico, era una questione di vita o di morte. Ho dovuto farlo, per salvare la mia vita».
Racconta spesso i suoi fallimenti. Perché?
«Perché sono veri. Forse ho la tendenza a dire quello che è brutto in me, ma credo sia un bene per il lettore, perché tutti abbiamo i nostri fallimenti e i nostri lati oscuri».
È consolante?
«Il lettore pensa: è come me. Lo conforta. L’ho scoperto con L’Avversario. Mentre lo scrivevo provavo vergogna. Mi chiedevo: perché sono così affascinato da una storia così orribile? Che cosa dice questo, che cosa rivela di me? Che sono un mostro?».
E poi?
«Poi il libro ha avuto grande successo. E mi sono sentito confortato: significava che molti erano come me. Che non ero un mostro, ma un essere umano medio... Poi, dicendo certe cose di cui non sei orgoglioso, cerchi anche di migliorare te stesso».
La scrittura aiuta a migliorarsi?
«Sono abbastanza fiducioso, e ottimista, su questo suo potere. È molto difficile, però è un obiettivo. Io non sono così una brava persona, ma sono una persona morale».
Che significa?
«Credo nelle regole della morale, per me la distinzione fra male e bene è chiarissima. Quello che è difficile è comportarsi bene».
Parlando tanto di sé, come si evita il rischio che un libro sia ombelicale?
«Credo che, se scrivi onestamente e apertamente, nella storia ci sia sempre una dimensione universale. Ho sempre letto diari, anche se io non tengo un diario. Come quelli di Gide o Pavese. E, quanto più l’autore è sincero, quanto più amo i suoi libri».
Che altro ama nei libri?
«Mi piace quando un libro cerca di mettere insieme livelli diversi di esperienza».
Come Un romanzo russo?
«Be’, c’era la possibilità di scrivere due romanzi: uno sulla Russia e la mia famiglia, e uno sulla mia storia d’amore disastrosa».
E come sono diventati uno solo?
«Perché quelle cose sono successe a me, nello stesso arco di tempo. Ho fatto molta psicanalisi nella mia vita, e credo in due cose. Primo: che non devi vergognarti; devi fare tante cose, ma non quella. Secondo: quando ci sono due cose di cui parli, o che avvengono, nello stesso momento, se pensi che non abbiano niente a che fare, allora ne avranno molto. E devi scavare».
E poi come tiene insieme tutto?
«Per Un romanzo russo il processo è stato lungo, sei o sette anni. Dal primo viaggio a Kotel’nic, nel 2000, ho iniziato a scrivere reportage, storie per riviste, poi per il documentario, poi per il film; e nel frattempo c’è stata la storia catastrofica con Sophie. E le ricerche su mio nonno. Dopo che ho fatto l’editing del film, Ritorno a Kotel’nic, ecco, lì ho messo insieme tutto: ma ho cercato di non dare troppo ordine a quel materiale eterogeneo. L’esperienza era stata caotica, così il libro doveva essere caotico».
Non nel linguaggio.
«Sì, il linguaggio nei miei libri è semplice. Non mi piace scrivere complicato. Mi piace scrivere di cose complesse, ma nel modo più chiaro possibile. Hemingway diceva: come tutti conosco molte parole difficili, e faccio del mio meglio per non usarle».
Cerca di seguirlo?
«Sono attento al comfort del lettore: lo porto in un viaggio d’avventura, ma in business class. Per il lettore, non per me...».
Perché c’è sempre la violenza nei suoi libri, ed è un punto di svolta?
«In alcuni casi perché è successo, inaspettatamente. L’Avversario e Un romanzo russo sono molto, molto violenti».
Anche Limonov è violento.
«Lì c’è una violenza esterna, nella sua vita e nel mondo che lo circonda; non la condivido, ne sono testimone. Invece nell’Avversario, nel Romanzo russo e in Vite che non sono la mia ero profondamente coinvolto. Ero violento io stesso. È più difficile».
L’infelicità è una spinta a scrivere?
«Grande domanda. Non ho risposta. Oggi la mia vita è più felice e meno caotica di prima. Più che l’opposizione felicità/infelicità – visto che fondamentalmente siamo infelici – considero quella fra bene e male. C’è una convinzione diffusa che il male sia più interessante, in letteratura».
Non è d’accordo?
«Non ne sono convinto affatto. In Vite che non sono la mia scrivo di brave persone, mi piace molto quel libro e mi è piaciuto molto scriverlo. Per me c’è un mistero nella bontà, molto più affascinante che nel male; il quale non è poi così misterioso...».
Come incontra i suoi personaggi?
«A volte vado loro incontro, come il caso Romand, o Limonov. Altre storie ti capitano. Però poi devi sempre credere che la storia ti abbia scelto: è infantile e megalomane, ma per affrontare un processo così lungo e doloroso come la scrittura hai bisogno di questa illusione, di essere l’unico al mondo a poter scrivere quella storia».
Ha una routine?
«Quando sono nel processo di scrittura sì, scrivo il più possibile. Altrimenti no. Non sono di quelli che riescono a scrivere ogni giorno, purtroppo. Quando però il processo è già avanzato scrivo anche per molte ore, o qui, o in Grecia dove ho una casa, o nello chalet di un mio amico, in Svizzera».
Fa molto editing?
«Molto. Riscrivo e correggo, mi piace: scrivere a volte è doloroso, riscrivere è piacevole. Il difficile è accumulare materiale».
A volte ha il blocco dello scrittore?
«Sì, lo conosco bene. Come adesso. Cerco altre possibilità: scrivo storie per riviste, reportage, articoli lunghi. Amo molto questo processo creativo. E poi ho una grande fortuna: al momento sto preparando un film, una specie di studio sociale sulla disoccupazione e su un gruppo di donne che lavorano nelle pulizie. Un mondo che non conosco, e che mi interessa molto».
Quando girerà il film?
«L’inverno prossimo. A giugno girerò un documentario e trascorrerò un mese con sei o sette di loro. La possibilità di allontanarmi dalla mia vita e dalle mie esperienze quotidiane è uno dei piaceri del giornalismo, che amo molto, e una delle ragioni per cui scrivo».
Quali sono le altre?
«Ho appena letto i Saggi di George Orwell, di cui sto leggendo ogni cosa, sistematicamente; e ce n’è uno, Why I write, in cui spiega che per lui ci sono quattro ragioni per scrivere. La prima è l’egoismo puro e semplice: il nostro gusto per la gloria. Anche per me è importante, devo dire. La seconda è l’entusiasmo estetico: il gusto per la bellezza e la maestria. Amo lavorare; a volte è difficile, ma la manifattura è uno dei grandi piaceri della vita».
Gli altri motivi?
«L’impulso storico: il gusto di conoscere il mondo. Anche questo motivo per me è molto importante, infatti leggo molti libri di storia. Forse è l’eredità di mia madre. E infine l’obiettivo politico: il desiderio di cambiare il mondo, denunciare l’ingiustizia, che per Orwell era fondamentale».
Concorda?
«Per me è una buona lista. Aggiungerei il desiderio di esprimere se stessi. Abbastanza importante, per me. Quello che è sempre stato meno importante, per me, era il quarto motivo, quello politico. Invece oggi ho la sensazione che stia diventando più cruciale, in un modo che è ancora vago, e che riguarda la dimensione della relazione fra le persone nella società, come nel film che sto preparando».
C’è qualcosa che rimpiange di avere scritto?
«Un romanzo russo non lo scriverei più, ma non rimpiango di averlo scritto. Qualcuno dei miei primi libri credo fosse piuttosto scarso, ma non rimpiango neanche quelli».
Ha scritto cose brutte?
«Qualcosa, da giovane. Un giovane che si sforzava di scrivere cose complicate sotto l’influenza di Nabokov, evitando accuratamente qualunque forma di semplicità...».
Quindi nessun libro, al momento?
«Ho qualche vaga, vaga nota per un libro. Forse, dopo che avrò finito il film avrò abbastanza materiale per iniziare a scrivere qualcosa».