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 2018  giugno 03 Domenica calendario

E dopo 31 anni Mosca ritrova il suo pilota sparito in guerra

E l’Hiroo Onoda russo. Per lui – come per l’ufficiale giapponese arresosi nel 1974 dopo esser rimasto nascosto per trent’anni in una grotta delle Filippine – la guerra non era mai finita. Quando quella mattina del 1987 il suo Sukhoi 25 decollò dalla base di Bagram era ancora un giovane ufficiale. Sul suo berretto di pilota portava la Stella Rossa dell’Unione Sovietica e sulla base aerea a nord di Kabul sventolava ancora la bandiera rossa con la falce e martello. Quando in cabina suonò l’allarme non ci mise molto a capire cosa stava succedendo. Era fregato. Uno Stinger, l’implacabile missile americano che aveva già fatto fuori tanto suoi colleghi, aveva agganciato la sua scia, puntava dritto su di lui. Fu un attimo, non udì l’esplosione, sentì solo l’aereo impennarsi i motori perdere potenza mentre la mano cercava il sistema d’espulsione. Mentre si liberava del seggiolino e scendeva appeso al paracadute capì di esser ferito. Comprese che probabilmente sarebbe stato catturato. Lo ricorda ancora, ma le uniche parole che riesce a pronunciare sono «portatemi a casa, portatemi in Russia». Le ripete mentre abbraccia i volontari di «Boyevoye Bratstvo», i «Fratelli in armi», l’organizzazione di reduci russi che dagli anni Novanta lavora per trovare i militari ancora dispersi in Afghanistan. A quasi trent’anni dal ritiro sovietico del 1989 il loro lavoro è tutt’altro che terminato. E lui – l’ultimo dei sopravvissuti – è lì a dimostrarlo. 
Vyacheslav Kalinin, numero due dell’organizzazione non vuole rivelarne il nome, non vuole suscitare speranze immotivate. Ma il quotidiano Kommersant ne è certo, il sopravvissuto è Sergei Pantelyuk, un ufficiale pilota originario della regione di Rostov abbattuto nel 1987. Komsomolskaya Pravda, un altro quotidiano, racconta non solo la storia della sua povera madre e della sorella rimaste ad aspettarlo per oltre trent’anni, ma anche quella della figlia. La storia di una donna 31enne, nata qualche mese dopo l’abbattimento, che non ha mai conosciuto quel padre scomparso nell’inferno afghano. Ma riportarlo a casa, come sanno bene i volontari di «Boyevoye Bratstvo», potrebbe rivelarsi assai complesso. Da quanto si è appreso il pilota russo non si troverebbe in Afghanistan, ma in un campo di detenzione per prigionieri di guerra gestito da ex mujaheddin afghani, diventati presumibilmente talebani. Un campo quasi inaccessibile nascosto alla frontiera pakistana. Il caso del pilota russo e della sua guerra infinita non è certo l’unico. Nel 1989, quando abbandona l’Afghanistan invaso dieci anni prima, Mosca si lascia dietro oltre 300 dispersi. Molti sono disertori consegnatisi volontariamente ai mujaheddin e non si fidano a rientrare nonostante una legge degli anni novanta li abbia definitivamente graziati. Per questo la ricerca degli oltre 300 scomparsi non si è mai interrotta.
Negli ultimi 18 anni «Boyevoye Bratstvov» e altre organizzazioni, come il «Comitato del Cremlino per i soldati internazionali», ne hanno rintracciati una trentina di cui almeno 22 hanno accettato di tornare in Russia. Sette di loro si sono invece rifiutati di rimetter piede in patria. Il più famoso è Bakhretdin Khakimov. Dato per disperso fin dal 1980, quando serviva tra le fila del 101mo Reggimento fucilieri dell’Armata Rossa di stanza ad Herat, è riemerso dal nulla nel 2013 in un villaggio a poca distanza dal capoluogo provinciale. Il suo volto rugoso coperto da un turbante e incorniciato da una lunga barba bianca non ricorda neppure lontanamente il glabro ventenne ritratto nella foto d’archivio dell’Armata Rossa. In un’intervista raccontò di esser rimasto gravemente ferito in un’imboscata e di esser poi stato salvato da un gruppo di civili afghani che lo curò e lo medico. Da allora è sempre rimasto nella zona e si è trasformato in un guaritore esperto in quella medicina tradizionale afghana che gli aveva salvato la vita. «Qui sono sempre stato bene – ha detto l’ex soldato – gli afghani sono un popolo ospitale e a dir la verità non ho mai sentito il bisogno di tornarmene a casa».