il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2018
«Sono un ‘ladro’ di cinema cresciuto tra l’immondizia e la GoPro nelle mutande». Intervista a Marcello Fonte
Da ultimo tra gli ultimi, fino alla Palma d’oro a Cannes come miglior protagonista, e grazie a Garrone e Dogman. Quando parla è talmente diretto, da mettere a nudo chiunque lo ascolta.
Sua madre se lo aspetta?
Non sa nulla, è una sorpresa, le ho solo spiegato dove farsi trovare e lei ha risposto se mi vanno peperoni e coniglio.
Suo padre?
È morto sei anni fa, ma è sempre con me, nei periodi più difficili della vita non mi ha mai lasciato solo.
Quindi la baracca esiste ancora?
E certo, ma dopo Cannes vogliono realizzarci un museo: vogliono conservarla ed ergerla a simbolo.
Viveva con poco.
Senza niiiiente. Niente. Con la fame addosso, spesso la sera mi bruciava lo stomaco.
Per quanto tempo?
Tanto. Per sei anni ho vissuto sotto terra in una cantina, e solo io so quanto ho sofferto, ma allo stesso tempo è stato bello e non sono mai andato a pietire da qualcuno.
A Roma è stato uno degli occupanti del teatro Valle…
Ho dormito per due anni e mezzo dentro ai bagni, li dividevo con un amico, e per la puzza dei piedi eravamo obbligati a tenere la finestra aperta, pure d’inverno.
Grazie a un’altra occupazione l’ha scoperta Garrone.
Per caso. In quel periodo frequentavo il Cinema Palazzo, una struttura di San Lorenzo (a Roma), nella quale si organizzano spettacoli. La compagnia teatrale del momento perde il protagonista, morto nel bagno: disperati mi chiedono di prendere il suo posto, tanto avevo assistito a tutte le prove, conoscevo la parte. Accetto. Garrone la sera del debutto era lì…
Si è definito un “ladro di cinema”.
Ho rubato, sempre.
Pratico o metaforico?
Conosco tutti i set cinematografici di Roma, sono in grado di raccontare e spiegare i menu di ogni produzione, posso stilare una lista dalla miglior pasta alla peggiore; mi basta uno sguardo per capire se chi ci lavora è uno stronzo o meno, se è una fiction o un film. So tutto. Grazie ai cestini rimediati, sono andato avanti per anni e anni.
Uno sguardo.
Per me il set è nutrimento.
Lei presenza fissa.
Se parla con i camionisti delle produzioni, le possono confermare la storia… capisco il set anche dal portacenere.
Spieghi…
Come lo realizzano è un indizio fondamentale (e tira su con il naso, annusa): è come per il cacciatore quando segue la preda con il fucile.
Oltre a mangiare, lavorava?
Certo, ai Nastri d’Argento ho incontrato la moglie di Nino Manfredi (Erminia) e si è emozionata quando le ho rivelato che il mio primo giorno di set l’ho passato accanto a suo marito e fino alle quattro del mattino.
Lei ingaggiato, quindi…
Macché! Ero andato per curiosare, poi mi sono imbucato e non mi hanno cacciato; alla fine mi hanno preso come comparsa, dovevo salire sul tram e scendere. Però ho passato il tempo con Manfredi…
Cosa vi raccontavate?
Come ha iniziato, i primi set, la sua vita. Gentilissimo. A un certo punto ho anche tirato fuori la macchina fotografica e ho immortalato quei momenti.
Lui disponibile.
Umilissimo. E se uno va dove è sepolto (il Verano), lo capisce dalla tomba: semplice, tranquilla; mentre Alberto Sordi si è ricostruito la sua villa in miniatura, realizzata grazie ai consigli di un guardiano.
Conosce tutto del Verano.
Ci vado sempre, c’è silenzio, mi piace. Sulla tomba di Sordi ho spesso incontrato la sorella mentre gli portava i fiori.
Frequenta altre tombe?
Sì, De Filippo… ah, quella di Sordi è esposta a Est, posizionata ad angolo, esattamente come da lui richiesto. Gli piaceva così. Mentre Manfredi è in mezzo alle persone, a terra.
È un cultore tridimensionale del cinema.
Studio tutto, per questo prima citavo i portacenere.
In Calabria andava al cinema?
Neanche una volta, la mia famiglia non se lo poteva permettere: l’ho scoperto una volta arrivato a Roma.
(In pochi minuti sono varie le persone che si fermano e gli stringono la mano).
La riconoscono…
Prima passavo inosservato, adesso è un casino.
Le pesa?
Sono abituato a vivere nascosto, a scendere in cantina inosservato, a sognare in silenzio. Oggi sono a vista, sotto esposizione, e non mi è possibile organizzare gli sketch, sgamano immediatamente.
Che tipo di sketch?
A volte mi fingevo scemo, quindi per strada sperimentavo le reazioni di chi capitava… anche in televisione ho lavorato ovunque, ma quasi nessuno ne è consapevole.
Quale programma?
Dovevo entrare nella casa del Grande Fratello, poi con Paolo Bonolis a Ciao Darwin e altri ancora.
Come ci è arrivato?
Tutto è partito grazie a mio fratello, quando un giorno mi disse: “Vieni a Roma, stiamo organizzando uno spettacolo teatrale”. Ma era una piccola produzione legata al Teatro del Redentore di via Gran Paradiso, un binomio di nomi quasi perfetto. Dovevo restare tre giorni, non mi sono più mosso.
Un fratello illuminante.
Il maggiore di casa, conosciuto realmente solo a Roma: dalla Calabria è partito a 16 anni, ha studiato, è diventato architetto, unico istruito della famiglia. Tornava a casa solo ogni tanto, ed è stato lui a instillarmi la passione per la musica, a credere in me, a istruirmi sul curriculum.
Grazie a Cannes, ha messo qualche euro da parte?
Non ho controllato il conto, non mi interessa, per me è un investimento: ho acquistato la mia prima videocamera, la sognavo da una vita, e sei GoPro, più dei microfoni.
Casa l’ha cambiata?
Perché? La casa sono io e il mio computer con il quale posso lavorare e montare i filmati. Pensare che non sapevo neanche spedire un’email.
Torniamo al curriculum.
Un giorno mio fratello se ne esce: “Devi averne uno”. Che è? “Devi, a Roma si fa così”. Io pensavo: è matto? In Calabria ti sparano se ti presenti con quella roba; da noi basta una chiacchierata e uno capisce se la persona va bene, nel caso basta una stretta di mano.
E invece…
Mi compra il primo cellulare e per poter inserire un numero di riferimento, quindi mi obbliga a imparare l’italiano, mentre parlavo solo in calabrese; infine mi sono chiuso in una stanza per tre giorni.
Tre?
Finita la mia impresa, gli consegno i fogli. Esco. Torno. E lo trovo con le lacrime agli occhi: leggeva e rideva; leggeva e rideva fino a sentirsi male. Per anni il mio curriculum è stato il momento epico delle feste.
Cosa ha scritto?
Partiva così: “A 10 anni ho iniziato a studiare musica in una piccola banda di Reggio Calabria, dall’anno dopo ho suonato il tamburo e per cinque anni sono andato avanti, aiutato da un vecchio musicista, Don Paolino. Per lui ero diventato come un figlio. Andavamo nei paesini, ci mangiavamo le cose buone, caserecce, il buon vino, portavamo l’allegria”…
E poi?
“Mi sono iscritto al conservatorio di musica Francesco Cilea, i posti erano quattro e io sono arrivato sesto. La musica è stata sempre una passione mentale, e quello che mi piace faccio”. E poi la descrizione degli altri lavori.
Quali?
Meccanico, barbiere, macellaio, idraulico sturacessi, imbianchino, attrezzista e cavista per il cinema.
Come andava a scuola?
Bocciato in prima elementare, per i maestri ero troppo piccolo di statura, ma grazie a questa scelta, il secondo anno ho conosciuto Pasqualino, il mio migliore amico.
Il bicchiere è sempre mezzo pieno.
È vero. Così si vive e sopravvive. Comunque della prima-prima elementare ricordo solo i calci in culo della maestra, una volta con il tacco mi ha sollevato da terra, e le botte ricevute da una compagna di classe.
Cosa aveva combinato?
La compagnuccia che mi picchiava, un giorno mi chiede di tagliarle i capelli con le forbici da carta: arriva la maestra, vede due ciocche a terra, si avvicina, e scattano le pedate.
La bambina in silenzio.
Godeva.
È stato spesso bullizzato?
Abbastanza, però ero uno zingarello, andavo a cercare qualunque cosa nella discarica, e mi vergognavo: fino ai sette anni stavo sempre solo, poi dopo la bocciatura ho scoperto l’amicizia.
Si vergognava…
Mi nascondevo tra i rifiuti, l’unica forma di speranza mi arrivava da Rambo.
Rambo, chi?
Stallone! Lo imitavo, immaginavo le scene, le replicavo, mi sporcavo il viso, quindi le colline d’immondizia diventavano la mia giungla, mi nascondevo, e se passava qualcuno lo sbirciavo di nascosto.
La discarica da bambino, le cantine da adulto: cosa ha pensato quando ha visto l’albergo a Cannes?
Ah, ma lì c’è la liturgia del piano: la prima volta che sono andato la stanza era bella, ma quando sono tornato sono salito di livello e ho capito che sarebbe successo qualcosa: enorme, stupenda, con il terrazzo sul mare.
Donne?
Ci ho provato… niente.
Lì, in generale?
In molte civettano, ammiccano, chiedono l’autografo o il selfie. Basta. La sera resto sempre solo.
Solo selfie…
Delle volte sono preda di veri book fotografici, quando ad alcune vorrei dirgli: mi hai!
Si accontentano dello scatto.
Non sto con una donna da oltre sette anni.
Fisicamente o sentimentalmente?
Tutti e due.
L’ultima?
L’angelo mio, felicità pura, cinque anni di magia chiusa dentro una cantina. Poi ha preso un’altra strada.
Teme questa nuova realtà?
No, perché sono sempre io a decidere: nella vita conta la giusta misura, e parteciperò a tutto questo, solo fino a quando avrò qualcosa da dire.
Oggi c’è invidia verso di lei.
Ci sono attori che prima smerdavano ogni mio progetto e ora, quelle stesse idee, sono diventate fenomenali; alcuni si fingono amici.
In questi anni ha mai pensato “non ce la faccio”.
È capitato spesso, e ogni volta è arrivato l’incoraggiamento di mio padre, prima con le parole, dopo la morte grazie al suo pensiero.
Sembra Benigni con il figlio ne “La vita è bella”.
E come nel film, anche mio padre mi ha regalato tanta positività, mi ha insegnato attraverso l’esempio, eppure si è arrangiato sempre con un coraggio mai visto, ha provato ed è riuscito comunque a crescerci.
Ha stretto un bel rapporto con Edoardo Pesce, co-protagonista di Dogman.
Siamo Totò e Peppino, o Stanlio e Ollio. Anzi, meglio Stanlio e Ollio: durante le riprese sapevamo cosa stavamo creando, e senza darlo a vedere. A volte Edo si spaventava, temeva di farmi male; io lo tranquillizzavo: “Ammazzami, tu devi ammazzarmi, anzi ti aiuto a uccidermi”.
Complicità pura.
Totale. La sera dei Nastri d’Argento Carlo Verdone e Gigi Proietti ci hanno rivolto i complimenti: “Siete una bellissima coppia”.
I vostri personaggi sono marcati.
Su Facebook mi hanno chiesto l’amicizia tutti i canari d’Italia, mi mandano le foto dei loro animali.
Un esperto…
Credono sia un toelettatore di cani e gatti, ed è importante ingannare uno che realmente svolge quel mestiere, vuol dire che li ho rispettati.
Si è piaciuto sullo schermo?
Tanto, sono abbastanza narcisista, e poi non sono io, amo come mi guardano gli altri, cerco di capire perché sono stato scelto…
E questa volta?
Matteo intendeva imprimere anche un senso comico, per questo all’inizio del progetto, e mi riferisco a 12 anni fa, aveva pensato a Roberto Benigni per quel ruolo.
Quando vi siete incontrati a Cannes, Benigni cosa le ha detto?
Mi ha chiesto se ci sono o ci faccio.
Risposta?
“Secondo te?” Comunque era spiazzato. E si è visto quando sono salito sul palco, tra di noi è scattato come un duello, e io amo queste situazioni.
Non s’imbarazza…
Per niente, come le ho detto, conosco i segreti della televisione, li ho visti tutti lavorare e dal vivo, li ho ripresi grazie alle mie piccole telecamere, esco di casa sempre con una GoPro infilata nelle mutande e al momento opportuno la estraggo.
Come avvenuto sul set di Gangs of New York…
In quel periodo ancora non sapevo nulla, non ero mai andato al cinema. Eppure riesco a intrufolarmi sul set, divento una comparsa, fino a quando incrocio Leonardo DiCaprio. Mi fermo… Ah, premessa: sul set erano proibite le riprese private, guardiani ovunque ed elicotteri a controllare.
Blindati…
Non mi fermo. Infilo la mano nelle mutande, prendo la macchinetta e chiedo a un signore di scattare la foto. Accetta. Quel signore era Daniel Day-Lewis.
(L’ennesima persona lo saluta in maniera personale)
La conoscono in molti…
Con i miei lavori ho girato dentro le case di Roma, per anni ho risolto i problemi della gente attraverso i lavori più piccoli, quelli che non svolge più nessuno, e dopo questi incontri creavo degli sketch.
Polivalente.
La presa dell’elettricità rotta, il water otturato, una macchia di umido sul muro. Mi chiamavano e andavo. A volte le richieste erano scuse dettate dalla solitudine, avevano bisogno di qualcuno con cui sfogarsi, e io so ascoltare. Ah, il massimo era nei momenti da barbiere.
Con il barbiere ci si confida.
Ogni mercoledì mi presentavo in una falegnameria di San Lorenzo e prima della chiusura tagliavo i capelli prima al principale e poi ai lavoranti, e prima sentivo lo sfogo di uno e poi quello degli altri. Divertentissimo. A casa scrivevo tutto.
Con quanto viveva al mese?
Nulla, un pezzo di pane andava bene.
300 euro?
Con 300 euro avrei messo su famiglia. Vivevo con niente: dormivo in una cantina, mangiavo sui set o saltavo il pasto, e i vestiti li rimediavo, mai nuovi.
Cosa vuole dalla vita?
La possibilità di continuare con le mie passioni, mi piace quello che ho. Magari una famiglia, dei figli…
Cosa insegnerà ai figli?
Onestà e lealtà. E ad accettare gli errori, gli sbagli e a saper aspettare. Sì, saper aspettare.