il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2018
Il Romanzo criminale dell’arte made in Italy
L’ultimo è un capolavoro del 1926 di Giorgio de Chirico, “Composizione con autoritratto”, rubato il 16 novembre scorso con un taglierino dal Béziers Art Museum, nel sud della Francia, tra Lione e Marsiglia. Era di proprietà di Jean Moulin, eroe della resistenza francese, morto nel 1943 sul treno che lo portava in un campo di concentramento nazista e la tela, dal valore “inestimabile”, difficilmente verrà recuperata: nel museo del Comune di Beziers, guidato da Bernard Menard, fondatore di Reporter Sans Frontières, non c’erano telecamere. Qui in Italia l’ultima caccia al tesoro risale a tre mesi fa, quando i carabinieri del Nucleo tutela del patrimonio artistico, hanno recuperato ben 37 opere d’arte rubate per un valore di alcune decine di milioni di euro: erano appese ai muri delle case-vacanze che un imprenditore di Positano affittava ai turisti. “Si tratta di un amante dell’arte’’ – disse il procuratore aggiunto di Salerno Luigi Alberto Cannavale, e l’inchiesta “Artquake” ha accertato che le opere provenivano da 16 furti compiuti all’interno di chiese e case private negli ultimi vent’anni.
Anche dalle macerie del terremoto de L’Aquila: i carabinieri hanno trovato cinque pale d’altare del XVII-XVIII secolo, sottratte prima del dicembre del 2012 dalle Chiese di San Nicola a Capestrano e San Giacomo Apostolo a Scoppito, in provincia de L’Aquila, entrambe chiuse dopo le scosse del 2009.
Rubato in pieno giorno dai musei o sottratto con la complicità di custodi infedeli, sparito dai muri delle abitazioni private, o trafugato da parrocchie di provincia sconosciute se non ai collezionisti, il patrimonio artistico italiano sparito nel nulla potrebbe riempire il primo museo per quantità e importanza del mondo.
Il crimine è l’altra faccia del record italiano che vanta oltre il 70% dell’arte sul pianeta, perché il nostro Paese è anche il primo al mondo per numero di furti d’arte: 55 al giorno, quasi 20 mila all’anno, per un traffico illecito che a livello globale si aggira sui 9 miliardi di euro. I più recenti in Emilia Romagna: l’11 marzo scorso un ladro, entrato nella Pinacoteca di Bologna, probabilmente con i visitatori, è uscito con una preziosa tavoletta di Giusto de’ Menabuoi, risalente al 300. E a fine febbraio dalla Pinacoteca di Faenza (Ravenna), è sparita una “Crocifissione e discesa al limbo” di maestro anonimo del XIII secolo.
Furti compiuti spesso con la regia delle organizzazioni criminali che si muovono dietro le quinte del traffico di capolavori per poi giocare i recuperi sul tavolo delle trattative con lo Stato, ritenuto da Cosa Nostra (e chi se n’è servita) più vulnerabile proprio sui Beni Culturali: la stagione stragista del ’93 prese di mira per la prima volta lo scrigno del patrimonio artistico nazionale, la Galleria degli Uffizi di Firenze. Vennero distrutte opere d’arte di enorme valore, il 25% dei dipinti della Galleria subì danni. L’anno precedente, il ’92, è il misterioso Paolo Bellini, definito dal boss Nino Gioè “infiltrato dello Stato’’ a consegnargli nell’estate stragista del ’92 una busta con le foto dei cinque capolavori sottratti pochi mesi prima alla Pinacoteca di Modena, forse da una banda guidata da Felice Maniero. In cambio dei quadri, dice Bellini, ci sarebbe la concessione di qualche beneficio per i mafiosi.
Gioè e Giovanni Brusca nicchiano, non garantiscono il recupero di quei quadri ma ne propongono altri, naturalmente rubati e nella disponibilità di Cosa Nostra; Gioè porta le foto insieme ai nomi dei mafiosi per cui vengono chiesti gli arresti domiciliari: sono Bernardo Brusca, Luciano Liggio, Pippo Calò, Giuseppe Giacomo Gambino e Giovambattista Pullarà. Lo scambio sfuma nel dicembre ’92 perché, dice in aula il pm Roberto Tartaglia, i boss – sono parole testuali di Gioè – “avevano un’altra trattativa in corso che arrivava ai piani più alti del governo”. E ostaggio di una trattativa con lo Stato è stato anche il sospetto che ha accompagnato per decenni il furto della “Natività” di Caravaggio, staccato con una lama dall’altare dell’oratorio di San Lorenzo di Palermo in una notte dell’ottobre 1969, e mai più ritrovato.
L’Fbi la inserì nella top ten mondiale delle opere rubate, e la Commissione antimafia ha presentato a Palermo tre giorni fa i risultati dell’ultima indagine: rubato da balordi sotto lo sguardo attento di “esperti d’arte’’, ha detto la Bindi, il quadro, probabilmente spezzettato in quattro o otto frammenti, come si usava allora per ottenere il massimo del profitto, è stato affidato poi al boss Tano Badalamenti che l’avrebbe venduto a un mercante svizzero commosso “fino alle lacrime’’ per la sua bellezza. A commissionare il furto non sarebbe stata Cosa Nostra intervenuta solo in un secondo momento per accaparrarsi l’opera. Nel dibattito che si è svolto nell’Oratorio di San Lorenzo, dove l’opera fu rubata, è emerso anche che monsignor Benedetto Rocco, direttore della chiesa, qualche giorno dopo il furto aveva avviato una trattativa coni ladri per il recupero della tela. “Aveva avviato i contatti per la restituzione, ed era a buon punto – ha detto padre Giuseppe Bucaro, direttore dell’ufficio Beni culturali della Diocesi di Palermo –. Allora, io ero un suo allievo e ci disse che qualcuno della polizia non si era mosso bene e il contatto era sfumato”.
Le nuove rivelazioni del boss Gaetano Grado chiamano in causa Francesco Marino Mannoia, che ha smentito che il quadro fosse stato distrutto (come aveva detto per “non essere più disturbato’’ dagli investigatori) smentendo anche la leggenda che la tela fosse stata per anni simbolo del potere mafioso, appesa addirittura alle pareti durante le riunioni della commissione: “Tutte buffonate – ha riferito Marino Mannoia – non esistono queste cose”.
Simbologia a parte, l’arte è stata il core business della famiglia del superlatitante numero uno di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, il proprietario, secondo Gioè, delle opere da scambiare con Bellini. In un pizzino ritrovato dagli investigatori, il boss scriveva: “Con i traffici d’arte ci campiamo la famiglia”.
E l’arte è sempre stata una delle piste seguite dai “cacciatori” di latitanti per arrivare al capomafia, l’ultimo dei corleonesi ancora in libertà. Alla fine degli anni 90, Messina Denaro a Mazara del Vallo tentò addirittura il furto del “Satiro Danzante”, un reperto bronzeo, opera di Prassitele, che in quel marzo 1998 era stato appena recuperato dal peschereccio “Capitan Ciccio” nel Canale di Sicilia. Il piano saltò, ma tutto era già pronto per la vendita del Satiro che doveva essere commercializzato “attraverso rodati canali svizzeri”, come ha raccontato il pentito Mariano Concetto che doveva compiere il furto commissionato dal boss in persona.
Ma la passione per l’arte del giovane Messina Denaro è un’eredità di famiglia: suo padre, don Francesco, uno dei primi “tombaroli” siciliani, fu autore negli anni 60 del furto del prezioso “Efebo”, rubato all’interno del municipio di Castelvetrano: una statuetta in bronzo di appena 85 centimetri, allora usata come porta cappello nell’ufficio del sindaco. Nessuno all’epoca ne conosceva il valore, tranne l’anziano padrino che cercò di venderlo ad alcuni antiquari e collezionisti americani, tra cui risultava anche il miliardario americano Jean Paul Getty, e quando non ci riuscì, decise di chiedere un riscatto, 30 milioni di lire, una cifra allora esorbitante, in cambio della restituzione. Alla fine la Polizia recuperò la statuetta il 14 marzo del 1968 a Foligno.
Frontman del boss è ritenuto un trafficante d’arte di Castelvetrano, proprietario di un parco di 25 mila ettari di ulivi, che ha fatto affari con i musei di tutto il mondo, dal Louvre al Metropolitan di New York, e ha rifornito di opere d’arte le maggiori università, dalla Columbia a Pricenton e Yale: Giovanni Franco Becchina, 76 anni, cui nel 2015 i carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio artistico sequestrarono, riportando in Italia, 5.361 reperti trafugati dai tombaroli e custoditi in Svizzera, in cinque magazzini della sua Galleria Palladio Antique Kunst che nascondeva anche un sostanzioso archivio: il “Becchina dossier”, come lo ha definito l’Fbi, che insieme ai carabinieri trovò oltre 13 mila documenti (fatture, note di trasporto, pagamenti, lettere indirizzate agli acquirenti, immagini scattate da polaroid) suddivise in 140 raccoglitori sequestrati dai carabinieri. Una miniera di informazioni su rotte e protagonisti del traffico internazionale d’arte, che in Italia subisce un’impennata alla vigilia della Seconda guerra mondiale, quando qualcuno decise di fare sparire centinaia di opere d’arte da un museo siciliano.
Fu Federico Zeri, nel ’51 giovane ispettore dei Beni Culturali, a scoprire il più colossale scandalo italiano dei furti d’arte, ricostruito lo scorso anno dal giornalista messinese Daniele De Jaonnon: visitando il Museo Nazionale di Messina, Zeri si accorse che la “Madonna in Trono con bambino’’, parte centrale di un trittico fiammingo dei primi del 500, era palesemente diversa dai due pannelli a fianco. Non la mano di un allievo cinquecentesco, ma quella di un abile falsario, e pure recente.
Da Roma piombò nella città dello Stretto l’ispettore capo, Emilio Lavagnino che, analizzando un terzo delle opere, scoprì che il museo era stato saccheggiato. Ma non accadde nulla, né a Messina, né a Roma. È di nuovo Zeri a riportare a galla la questione, scoprendo sei anni dopo su una parete della casa dell’industriale farmaceutico milanese Aldo De Angelis la parte centrale, e originale, del Trittico fiammingo. A Messina arriva Rodolfo Siviero, allora numero uno nel recupero delle opere d’arte trafugate dai nazisti, dipendente del ministero degli Esteri, visto che non esisteva ancora il Nucleo tutela patrimonio artistico, costituito nel ’69.
Siviero scopre che i pezzi scomparsi sono circa 600 (il primo furto è del ’39): maioliche veneziane, ori, argenti e paramenti, di cui 260 tele di valore sostituite, ed è il dato più incredibile, con copie realizzate recentemente. Scattano le indagini e salta fuori il nome del falsario, il custode Domenico Omero, che dopo avere lasciato Messina fa il “pittore copista” a Roma, e ammette di avere copiato i quadri: “Avevo l’autorizzazione del direttore Catanuto”.
In quel periodo, scrive il direttore Maria Accascina, il Museo Nazionale di Messina consisteva “in macerie e immondizie, furti e falsi, mancanze di inventari recenti, mancanze di consegne tra i vari direttori e di revisioni inventariali o ispettive dopo il grosso furto avvenuto nel 1939, mancanza di elenchi di opere rimaste nei magazzini e sulla spianata quando vi hanno preso stanza i tedeschi e gli inglesi, mancanza di elenchi delle opere mandate nei rifugi e ritornate”. La vicenda approda alla Camera nel novembre del ’59 quando tre deputati presentano un’interrogazione per sapere se è vero che “260 opere sono state rubate dal Museo di Messina per essere vendute sul libero mercato’’.
La conclusione la raccontò lo stesso Siviero nel suo libro L’Arte e il Nazismo: “Poi la festa finì all’italiana; la magistratura di Messina, sollecitata non si sa da chi fece trasportare tutti gli oggetti, prima ancora del processo, nel museo da cui erano scomparsi. La cerimonia fu solenne: prefetto, sindaco e magistrati, in una scena che ricordava quella dei Re Magi, consegnarono i doni alla direttrice del museo e furono tutti fotografati”. E le indagini, su ladri e falsari rimasti impuniti, finirono negli archivi polverosi della memoria.