Corriere della Sera, 3 giugno 2018
Concerto per pneumatici e orchestra
«Mi do sol do#», quattro note, la cellula primigenia che dà origine al Canto della fabbrica, si possono ascoltare ripetersi all’infinito e, poi, seguendo leggi antiche della composizione, dal contrappunto con i suoi artifizi all’inversione, cioè suonate all’incontrario. Quel canto che il compositore Francesco Fiore ha scritto ispirato dal ritmo dei robot – «operai specializzati» del reparto pneumatici dello stabilimento di Settimo Torinese della Pirelli – e dall’alchimia delle polveri che trasformano magicamente una mescola informe in un prodotto di qualità, è nato «nella» e «per la» fabbrica.
A dieci mesi dalla prima esecuzione durante il Festival MiTo nel luogo in cui aveva preso vita, la composizione diventa prima lo spunto e poi la tessitura di un lavoro più complesso: dà infatti il titolo a un’opera multimediale perfetta. Che racconta come cambia la fabbrica, da quella del primo Novecento tutta acciaio, rumore e fatica alla nuova «Civiltà delle macchine» nei rapidi mutamenti hi-tech. Ci sono un libro (edizione Mondadori, pagine 328), con interviste, analisi, approfondimenti del tema immenso della fabbrica di ieri e di oggi, del passaggio epocale all’industria 4.0 – quella in cui le tute blu hanno lasciato il posto ai camici bianchi —, c’è il racconto del Novecento industriale con immagini in bianco e nero e con foto d’autore estratte dall’Archivio Storico Pirelli. E i bozzetti di Renzo Piano, un fermo immagine del pensiero di chi quella fabbrica di Settimo Torinese ha voluto trasformare in un luogo «bello». Ma c’è anche un dvd, che riporta per intero il concerto e video. E ancora interviste e tracce audio.
Il volume sarà presentato domani, 4 giugno, alle 19 in occasione dei festeggiamenti per i dieci anni di Fondazione Pirelli. Nel quartier generale della Bicocca a Milano sarà anche possibile ascoltare dal vivo l’opera di Fiore eseguita da Salvatore Accardo e dall’Orchestra da Camera Italiana.
«Quando un lavoro funziona – dice Renzo Piano, in un dialogo con Amerigo Daveri, regista e autore di decine di documentari – è perché è un lavoro corale». L’architetto racconta come è nata la «fabbrica bella» di Settimo Torinese, circondata da un giardino di ciliegi, e poi del rapporto possibile di architettura e musica: «La musica è tra le arti la più leggera, l’architettura la più pesante». La prima fatta di note che spariscono nell’aria, la seconda a battersi di continuo con la gravità. «Entrambe possono creare straordinarie vibrazioni. Entrambe hanno bisogno di ordine, precisione, geometria».
L’architettura non cambia il mondo «ma può aiutare a viverlo meglio, a interpretare i cambiamenti». Ed è poi il direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò a spiegare come «dall’incontro della conoscenza scientifica e di quella umanistica nasce la cultura politecnica». Il canto della fabbrica ne è una metafora. Perché la «fabbrica bella» ha un «volto nuovo e una nuova cultura. E ha dunque bisogno di nuove rappresentazioni».
È un’amicizia di vecchia data quella tra musica e fabbrica. Piero Violante, critico e saggista, traccia la storia del teatro e dei concerti per i lavoratori, racconta della musica che nella Vienna di metà Ottocento esce dai salotti per diventare linguaggio universale. Sarà la fabbrica in piena rivoluzione industriale a dare identità a un nuovo soggetto sociale. «Le culture per essere feconde – scrive Marco Tronchetti Provera nella prefazione – hanno bisogno di confronti, ibridazioni e la musica può essere la chiave di interpretazione». Lo è già stata dal 1927, quando Šostakovic diede voce alla fabbrica, alla sua anima dura, faticosa, stridente nella seconda sinfonia che celebrava il decennale della Rivoluzione d’ottobre. E sarà rivoluzionaria l’avanguardia artistica del primo Novecento, ancorché borghese. C’è stato il tempo in cui i rumori della fabbrica, metallici e stridenti, nel pieno Novecento hanno vissuto anche nelle partiture di John Cage, Berio e Nono.
Civiltà delle macchine, delle immagini, delle parole. Giuseppe Lupo esamina gli anni degli artisti in fabbrica, quando il rapporto si fa stretto, negli anni del boom economico. Le imprese allora affidano a scrittori e artisti il compito di comunicare i propri prodotti all’esterno e incentivano nuove forme di mecenatismo. Ma la fabbrica diventa anche palestra del nuovo scrivere. Si consuma così il matrimonio tra intellettuali e fabbrica ed ecco, come scriverà Umberto Eco, dividersi in «apocalittici» – Bianciardi, Pasolini, Gadda, Calvino – e «integrati» – da Buzzi a Siniscalchi —. È l’età favolosa in cui nelle case degli italiani entrano il frigo e la televisione, e nascono pubblicità come il cane a sei zampe di Luigi Broggini. Rimasto, quello di Agip, «uno dei simboli icona leggendaria di una Italia fortunata e sognante». Insomma, come chiariscono gli economisti Pier Luigi Sacco e Massimo Bergami il tema della cultura e dell’industria 4.0 non sono alternativi ma fortemente complementari. «Il rapporto tra industria e produzione creativa ha una gloriosa tradizione (Olivetti)». Bene sarebbe trasformarla – dice Sacco – da belle situazioni isolate in un pezzo di innovazioni di sistema». La rivoluzione dei robot non è evitabile, aggiunge Bergami: «La rivoluzione digitale non riguarda solo l’industria ma la società tutta, impone il rafforzamento della trama sociale, richiede la capacità di competere come sistema, non come singoli. È la lezione di Torino: in un mondo globale il valore del prodotto italiano deve dipendere in misura crescente dal sistema di riferimenti culturali di cui riesce ad essere espressione, ricomporre separazione fra sapere umanistico e tecnica che la cultura italiana ha saputo tenere uniti».