Corriere della Sera, 3 giugno 2018
«L’amore tra me e Roberto? Scoppiò al cinema, a teatro e tra i libri scelti da Borges». Intervista a Nicoletta Braschi
Principessa, lei ha sempre avuto ruoli angelicati, persino Madonna e Fata Turchina. Perché, da marchesa, diventa cattiva?
«Oh no, avevo già ucciso Johnny Stecchino. Dirà lei: ma quella era una commedia; certo, però non sa con quale gioia interpreto la marchesa Alfonsina de Luna in Lazzaro felice di Alice Rohrwacher. In un poetico, originale film corale, con un protagonista diamante di bontà, sono la perfida, antagonista di tutti; contamino negativamente la vita degli altri, persino di mio figlio».
Ma come, Nicoletta Braschi, la «principessa» di«La vita è bella», la «musa-Beatrice» di suo marito Roberto Benigni, è felice di impersonare la cattiveria peggiore, quella ammantata di gentilezza?
«È il privilegio del mio lavoro. Posso permettermi di esplorare l’animo umano e, in questo caso, scandagliare il sentimento da cui difendersi. La marchesa è stata crudele anche con me: per interpretarla, ho dovuto ricominciare a fumare».
Com’è diventata attrice una ragazza di buona famiglia nata a Cesena?
«Lasciando che la vita andasse dove voleva, senza fare troppi progetti. Papà, mamma e tre fratelli, la mia famiglia, vivevano spesso a casa dei nonni materni, una bella villa Liberty con l’orto, un piccolo parco, la vasca dei pesci, la piccionaia... Nonno scolpiva il ferro, aveva un’officina con operai che battevano a mano maestosi cancelli e orologi per giganti: i campanili su cui si doveva leggere l’ora anche a un chilometro di distanza. Sono cresciuta, piccola, tra ingranaggi che falsavano le proporzioni, e di pomeriggio correvo su, al primo piano, dove viveva il fratello di nonno, pittore, scultore e ceramista. Dipingevo, mentre nel parco nonna accudiva i mughetti, i giacinti, le fresie, le rose. Non riesco a parlare di mia mamma Paola senza usare i superlativi (buonissima, intelligentissima, bellissima). Era così tutta la sua famiglia: un esperto di botanica, due mistici che disprezzavano i beni materiali, la tenera zia Cecé, zia Alba e il suo primo marito Franco La Polla, due gioiosi intellettuali che mi nutrivano di Dickens, Beatles, Faulkner, film dei fratelli Marx... C’era una cugina di nonno, Dora De Giovanni, cantante lirica a riposo, la preferita di Mascagni: quando andavamo a trovarla, la sua voce risuonava nella casa come se stesse ancora interpretando una romanza».
E suo padre?
«Sa che non ho mai capito in cosa consistesse il suo lavoro? Era direttore di Confartigianato. Un uomo festoso. Dopo tanti anni, ogni volta che vado a Cesena qualche vecchio signore mi ferma per strada: “Non mi conosci, ma ero il miglior amico del tuo papà”. Temo di avergli dato una grande delusione. Amava giocare a tennis e mi fece prendere lezioni. Avrebbe tanto voluto giocare con me. Mi faceva allenare la mattina prestissimo, nel mese di maggio, prima di andare a scuola. Mi piaceva solo perché c’erano le rondini. Compiuti i 14 anni, il maestro gli disse: “Guido, lascia perdere, è negata”. Così ho inseguito il mio mondo interiore, ma senza fare programmi. Le letture mi aprivano i continenti interiori: i Lirici greci, Nietzsche, Virginia Woolf, Thomas Mann, Proust».
Fu allora che decise di iscriversi all’Accademia di Arte drammatica di Roma?
«Prima andai a New York, dove venni ammessa alla scuola di Stella Adler. Mi accorsi, però, che non sarei riuscita a lavorare come avrei voluto con una lingua diversa dalla mia. Dopo tre mesi, rifeci la valigia e mi trasferii a Roma, dove mi aspettavano tre anni meravigliosi di lavoro intensissimo. Come per il tennis, riuscii a farmi esonerare dalle lezioni di scherma, mimo e danza. Ero negata».
Però cominciò a interpretare la signorina in «Tu mi turbi» già nel 1982.
«Nell’80, un paio di mesi dopo il mio trasferimento a Roma, conobbi Roberto Benigni. Aveva 28 anni ed era già amatissimo da tutti. Ci presentarono amici comuni e fin dai primi giorni cominciò un lavorio ininterrotto di costruzione, un’intesa che sarebbe sfociata nel nostro lavoro in comune. Roberto era ed è un grande maestro. Da allora ci siamo nutriti delle stesse cose. Veniva a prendermi all’Accademia e andavamo al cinema quasi tutti i giorni; quando si riusciva anche a teatro. Ci passavamo i libri. Leggemmo tutti quelli che Borges sceglieva per la collana di FMR, se la ricorda: La biblioteca di Babele? Adoravamo Isaac Bashevis Singer. A proposito dei ruoli che ho ricoperto nei film – visto che li ha citati – non ne sono responsabile. Tra me e Roberto il dialogo era fittissimo, ma io non sono mai stata capace di propormi. Così è stato anche con gli altri registi che mi hanno diretta».
Finita l’Accademia, cominciò quasi subito a svolgere un doppio ruolo: attrice e produttrice. Come mai?
«Nel 1985 feci l’incontro che rivoluzionò la mia vita professionale. Sara Driver e Jim Jarmusch mi insegnarono il mestiere di produttore indipendente. Impiegai del tempo per accettarlo, lo sentivo un lavoro lontanissimo, ma capivo che poteva regalare una totale libertà. Avremmo potuto fare senza dover discutere. E già cominciammo, parzialmente, con Il piccolo diavolo».
Ingaggiando Walter Matthau.
«Altro meraviglioso regalo. Walter ci ha così sostenuti, così amati. Ne è nata un’amicizia profonda, durata sino alla fine della sua vita. Con Roberto dicevamo: “Ma ci pensi? Facciamo un film con Matthau!”. Stavamo insieme dalla mattina alla sera, tutti i giorni. Walter è stato come un abbraccio forte; ci ha donato uno sguardo amoroso nella vita e sul lavoro, ci ha riscaldati. Qualche anno dopo, Jack Lemmon, ricevendo lo Screen Actors Guild me lo dedicò. Rimasi stupefatta, perché non ci eravamo mai incontrati prima. Poi mi disse che quando io e Roberto andavamo a Los Angeles, Matthau lo chiamava: “Arrivano, adesso ci divertiamo da morire”. Voleva diventare amico anche lui. Carol Matthau, la moglie, diceva che lei, io, Gloria Vanderbilt e Oona O’Neill (figlia di Eugene) eravamo “le quattro migliori amiche di sempre”. Peccato che una non l’avessi mai vista e l’altra fosse morta da anni. Così, incontrando Aurelia Chaplin, nipote di Oona, le ho detto: “Piacere, sono la migliore amica di tua nonna”. Ci mancano tanto Walter e Carol».
Prima di entrare nei vostri anni Novanta pieni di successi, fermiamoci un attimo: si dice che, il 26 dicembre del 1991, lei e Roberto vi siate sposati in un convento delle suore Cappuccine a Cesena. Celebrava don Tarcisio Di Giovanni, zio materno, per 15 anni missionario in Mozambico. Zia materna anche la badessa. Nessuno confermò mai nulla, né la portinaia del convento, né il vescovo di Cesena, che si trincerò dietro a un: “Torno adesso da un funerale, mi capisca”. Dopo la cerimonia, saliste su una Mercedes e sgommaste via. È vero?
«Invidio chi riesce a parlare liberamente delle proprie cose private. Mi perdoni, non ce la faccio. Se lo ritiene necessario, lo scriva, ma non lo chieda a me. Sono come un’ostrica, per aprirmi del tutto, quest’intervista dovrebbe durare nove mesi. Non credo lei abbia tutto questo tempo».
Qualche retroscena di «La vita è bella»?
«Roberto scriveva la sceneggiatura con Vincenzo Cerami. Un’idea straordinaria: la storia di un padre che impedisce al figlio di provare un trauma irreversibile. Una delle gioie della mia vita è sapere che i nostri film parlano contemporaneamente ai semplici e ai, diciamo, sofisticati. Ogni giorno incontro persone che dicono: “Ho amato tantissimo quel vostro film!”; aspetto il titolo e non sempre è La vita è bella. Sul set c’era una particolarità che investiva tutti: un bimbo di cinque anni con cui era meraviglioso lavorare. Con lui Roberto è andato oltre se stesso».
Quando si è riaffacciata al teatro?
«Nel 2004, a Ferrara. Claudio Abbado, uno dei nostri più cari amici, mi chiese di fare con lui Sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn. Un incanto irripetibile. Dal 2013 interpreto Giorni felici di Samuel Beckett, diretta da un grande regista, Andrea Renzi. Ci siamo presi il lusso di lavorare nove mesi sul testo, un capolavoro assoluto, molto complesso: le parole, le pause chieste da Beckett, i silenzi. Nelle prime quattro pagine di Giorni felici ci saranno cento parole di testo e 400 indicazioni all’attrice. Ho sempre Beckett qui, dietro alla mia spalla. Si preoccupa di tutto, mi dice di appoggiare lo spazzolino, reclinare la testa, guardare in altro, una complessissima partitura che dona una libertà straordinaria. Beckett prevede tutti i dubbi superficiali dell’attrice, e li scioglie, le dice: vai tranquilla, cerca di fare ciò che è più importante, sii Winnie».
Non ha paura quando entra in scena?
«C’è un attimo di buio, poi mi tuffo. Virginia Woolf, che leggerò il 9 alla Casa internazionale delle donne a Roma, parlando della scrittura dice che bisogna cogliere una scintilla di vita, con il rischio di bruciarsi. Cerco anch’io una scintilla di vita da porgere agli spettatori che con la loro partecipazione influiscono sul mio lavoro. E diventa un’esperienza comune, che passa, passa e va, come la vita».
Torna sempre Virginia Woolf. Ho visto una sua fotografia di qualche anno fa in cui lei le assomiglia moltissimo.
«È un grande esempio di ricerca di libertà espressiva. Dice che un trionfo, se ottenuto a scapito dalla vita, è in realtà una sconfitta. Vale molto per noi donne. Nel mondo del cinema, ad esempio, stiamo vivendo un cambiamento epocale: le violenze non saranno più possibili. Ogni essere umano deve essere responsabile di ciò che fa».
Quando interpreterà «Alice nel Paese delle meraviglie»?
«Lo farò con la mia amica Sara Driver quando avremo novant’anni».