La Lettura, 3 giugno 2018
E l’Austria morì sul Piave. Giugno 1918 , la vera vittoria
Quando alla fine dell’ottobre 1917 gli austro-tedeschi sfondarono a Caporetto e dilagarono nella pianura friulana, in molti ebbero la sensazione che la guerra italiana fosse avviata alla sconfitta. In mano agli austriaci erano rimasti un numero impressionante di prigionieri, oltre a grandissime quantità di armamenti, munizioni e scorte. I superstiti apparivano sfiniti e sfiduciati dal disastro e ancora più dagli oltre due anni di guerra inutile e sanguinosissima sul Carso.
Sette mesi dopo, nel giugno 1918, gli austriaci cercarono di replicare il successo, pianificando un attacco alla nuova linea difensiva italiana che andava dall’altopiano di Asiago al mare, seguendo in gran parte il corso del fiume Piave. Erano molto ottimisti: potevano schierare tutta la forza dell’impero, comprese le unità liberate dal fronte orientale dopo il ritiro della Russia dal conflitto. Erano galvanizzati dalla vittoria dell’anno precedente e convinti dell’inferiorità militare italiana. Infine una potente motivazione supplementare era rappresentata dalla prospettiva di ulteriore bottino. Infatti se l’esercito austriaco era ancora in notevolissima efficienza, alle spalle il fronte interno, strangolato dal blocco economico messo in atto dall’Intesa, stava crollando tra fame, scioperi e malcontento. Date queste premesse, una vittoria probabilmente avrebbe tacitato le proteste e compensato i sacrifici immensi della popolazione; una sconfitta avrebbe liberato le forze disgregatrici.
Dalla nostra parte del fronte, invece, i sette mesi dopo Caporetto avevano portato cambiamenti profondi. I sacrifici durante la ritirata e gli aiuti franco-britannici avevano permesso di stabilire una nuova linea di difesa, che aveva retto ai primi urti e poi era andata rinforzandosi giorno dopo giorno. L’arretramento, sotto il profilo meramente strategico, era stato una benedizione: il nuovo fronte era più corto, più difendibile e permetteva la dislocazione centrale di riserve in grado di intervenire al bisogno in ogni settore. Inoltre era naturalmente forte: contava su caposaldi poderosi come il monte Grappa e su ostacoli come il Piave, celebre per le sue tumultuose piene. Soprattutto la situazione generale imponeva agli austriaci l’onere di attaccare tali posizioni, esattamente il contrario di quanto era successo negli anni precedenti sul Carso.
Molto era anche cambiato nel soldato italiano e in come percepisse la guerra. La destituzione di Luigi Cadorna, l’abbandono dei suoi rigidi schematismi strategici e una maggiore attenzione ai bisogni dei soldati avevano migliorato sensibilmente il rapporto tra comando e truppa. La convinzione di combattere per la difesa delle case e delle famiglie, sostenuta da una propaganda abbastanza efficace, aveva dato un senso nuovo ai sacrifici imposti dalla guerra. Molto aveva anche fatto l’arrivo in linea dei ragazzi della classe 1899: giovani e inesperti, avevano però portato una ventata di entusiasmo, trasformando i superstiti disillusi di Caporetto in utili veterani. Infine erano migliorati l’armamento, l’addestramento e le tattiche; tra le novità c’erano grandi reparti di arditi da impiegare efficacemente in azioni di attacco o contrattacco.
Fu in queste condizioni che si giunse alla battaglia del Piave, detta anche del Solstizio. I numeri delle forze in campo grossomodo si equivalevano – il che non era un bene per gli attaccanti – e in più gli austriaci peccarono di eccessiva sicurezza. I due comandanti imperiali erano molto diversi per carattere e opinioni: Franz Conrad, al comando delle forze del Tirolo, era un sostenitore dell’offensiva; Svetozar Boroevic, teorico della guerra difensiva, guidava le truppe che fronteggiavano il Piave in pianura. I due non riuscirono ad accordarsi per concentrare gli sforzi in un unico punto e ottenere uno sfondamento decisivo: si ritrovarono così a tentare un assalto su tutta la linea, sperando in un crollo generalizzato.
I primi segnali furono avversi agli imperiali: il 10 giugno i motoscafi siluranti (Mas) di Luigi Rizzo affondarono la corazzata Szent István (Santo Stefano in ungherese) e il 13 un attacco preparatorio sul Tonale venne respinto.
Il 15 cominciò l’offensiva generale, ma i servizi d’informazione italiani avevano ben lavorato e praticamente l’intero piano nemico era a conoscenza dei nostri comandi. In alcuni punti le artiglierie italiane poterono addirittura colpire le truppe che si ammassavano per attaccare. A nord, sull’altopiano di Asiago, l’operazione che aveva il nome in codice di «Radetzky», ottenne successi limitati e ben presto la spinta offensiva si esaurì. Il fallimento costò l’esonero a Conrad. In pianura gli attaccanti del piano «Albrecht» dovettero avanzare superando il Piave in piena su precari ponti e passerelle, gettati alla bisogna: ciò nonostante riuscirono in molti settori a superare le prime linee italiane. Dopo qualche sbandamento iniziale, la risposta dei nostri comandi fu efficace. Le riserve riuscirono a tamponare i cedimenti della linea, mentre l’artiglieria e l’aviazione colpivano i ponti, impedendo che affluissero rinforzi sufficienti ad alimentare l’attacco. In una di queste operazioni di mitragliamento aereo morì Francesco Baracca, l’asso dell’aviazione italiana.
Già il 16 giugno si poteva dire che il piano austriaco era sostanzialmente fallito e pochi giorni dopo i nemici erano ritornati sulle posizioni di partenza. Giacomo Bollini e Paolo Gaspari nel libro Arditi, cavalieri e fanti nell’epopea della battaglia del Solstizio (Gaspari editore, di prossima uscita), oltre alla precisa ricostruzione della battaglia e alla narrazione di molte vicende di reparti e di individui, contano quasi 150 mila perdite austriache tra morti, feriti e dispersi, contro le 85 mila italiane.
Numeri che danno il senso della vittoria, ma che ugualmente non riescono a rendere l’idea di quanto la bilancia avesse preso a pendere a favore degli italiani. I segni di cedimento del fronte interno austriaco si fecero sempre più evidenti, mentre dalla nostra parte l’indiscutibile vittoria rinsaldò l’autorità e il prestigio del comando ed elevò il morale dei soldati. Il decisivo scontro autunnale di Vittorio Veneto non fu altro che l’epilogo logico di quanto accaduto a giugno. Come ricorda Alessandro Marzo Magno nel libro Piave (il Saggiatore) fu nel giugno 1918 che il nome del fiume divenne maschile, mentre in precedenza era sempre stata la Piave: lo decise una strofa dannunziana: «E il fiume maschio trascinava grappoli di cadaveri austriaci, da Nervesa al mare». L’immagine della difesa vittoriosa nella battaglia del Solstizio divenne quella di tutta la guerra e si sovrappose e cancellò i precedenti due anni sul Carso e soprattutto permise di dimenticare Caporetto
Grande vittoria per l’Italia che però non ebbe adeguata eco nella storiografia europea che considerava come scenario centrale e fondamentale quello francese, mettendo in secondo piano tutti gli altri fronti. L’inglese Basil H. Liddell Hart nelle 600 pagine della sua fondamentale storia della Grande guerra dedica tre righe agli scontri di giugno. Una differenza di considerazione che avrà un peso determinante nella distribuzione dei compensi al tavolo della pace e nella rottura delle alleanze che avverrà negli anni successivi.