La Lettura, 3 giugno 2018
Carlo Magno va alla caccia (e, dopo, invita tutti a cena)
Tra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del IX Carlo Magno è uno degli uomini più potenti della terra nell’area dell’Europa e del Mediterraneo. Dal 768 è re dei Franchi e, dopo una serie di vittoriose campagne militari, tra cui nel 774 quella contro i Longobardi, estende i suoi territori dal Baltico all’Italia centro-settentrionale. Carlo governa il suo vasto regno in modo deciso e innovativo. Nella notte di Natale dell’ 800 il pontefice Leone III gli pone sul capo la corona del rinato Sacro Romano Impero e Carlo diviene imperatore dell’Occidente, rex pater Europæ.
Ma Carlo non è soltanto un imperatore. È anche un uomo e desidera distrarsi e dedicarsi ad attività piacevoli. Tra una spedizione e l’altra, nei momenti liberi da impegni pubblici, quando la stagione lo consente e vi è disponibilità di animali, il re si alza all’alba, sale a cavallo e, con un nutrito seguito, al suono del corno, si addentra nelle foreste o percorre le distese di campi dei suoi domini alla ricerca delle prede. Ha con sé la spada per affrontare cinghiali e orsi, l’arco e le frecce per la selvaggina, cervi e caprioli. Lo accompagna una muta di cani. Sulla mano del re, rivestita dal guanto di cuoio, non manca il fedele falcone. Alle abitudini venatorie tradizionali il re unisce quelle provenienti dall’Oriente, ormai consolidate nei territori dell’ex impero romano. La falconeria compare nei suoi capitolari, per esempio viene proibita ai chierici, come anche la caccia con i cani, perché il re avverte la necessità di delimitare gli ambiti d’azione dei vari gruppi sociali. Tra i cacciatori ci sono gli ospiti, ma soprattutto gli uomini che circondano il re durante le spedizioni militari: la caccia come la guerra è un’azione collettiva e il sovrano ha intorno a sé coloro che sono legati a lui da vincoli di sangue e fedeltà. La caccia è sì uno svago, ma è connaturata alla regalità e funzionale all’esercizio del potere: serve per mantenersi in forma ed è un modo per dimostrare coraggio e forza, le medesime doti che il sovrano deve avere sul campo di battaglia e in virtù delle quali, unitamente ai doni che gli vengono da Dio, merita di governare.
L’aristocrazia guarda al re come a un modello da imitare. Ai cacciatori si affiancano i figli, i nipoti adolescenti che vengono avviati alle regole dell’arte venatoria. La caccia è una straordinaria pratica di iniziazione e del resto ha in sé alcuni topoi dei riti di passaggio all’età adulta praticati nelle società arcaiche: la foresta, luogo di presenze oscure e sovrannaturali, il pericolo, il rischio della morte. L’addestramento militare e la battaglia provvederanno a completare la formazione dei giovani aristocratici: la società carolingia, diversamente dalla nostra, non fa altro che dare forme plausibili e accettabili alla violenza, rendendole uno status symbol.
La conclusione della caccia è gioiosa: il sovrano e il seguito riprendono il cammino verso casa, mentre i servi, esclusi per legge dall’uso delle armi, trasportano le prede. Il suono del corno annuncia il ritorno. Gli addetti alle cucine cominciano a darsi da fare: legna, pentole, spiedi, stoviglie, ingredienti devono essere pronti rapidamente, perché, dopo la caccia, il sovrano è solito godere dei piaceri della tavola insieme ai suoi fedeli. Mentre Carlo e la corte, dopo un pasto leggero, rigenerano il corpo e lo spirito nelle acque delle terme intrattenendosi su temi di politica, astrologia, teologia, in poche ore il banchetto viene allestito. La tavola è addobbata con la sobrietà di un popolo guerriero, per l’occasione spensierata il re esclude l’obbligo del rigido protocollo dei pranzi ufficiali secondo cui anche a tavola si deve rispettare la gerarchia sociale. Le uniche regole imposte sono la pulizia delle vesti e delle mani e la posizione seduta e composta.
Il sovrano, la sua corte, gli ospiti, le donne oneste prendono posto insieme e comincia la sfilata delle vivande. Dominano le carni arrostite degli animali cacciati, insaporite dalle spezie, accompagnate da salse alle erbe: il padrone di casa non si cura della gotta. Non mancano però carni affumicate, salate, lardo. Per tutti ci sono formaggi, miele, frutti vari; scorrono in abbondanza birra e vino, il coppiere è esausto. Il suono dei flauti è la colonna musicale del banchetto, mentre lo spettacolo dei mimi intrattiene i commensali. Le voci si intrecciano, le parole risuonano nel rito piacevole del convivio. Quando anche l’ultima portata è stata servita, qualcuno rimane per dilettarsi con i giochi matematici che Alcuino ha introdotto a corte.
Carlo e il suo mondo passano e si trasfigurano nella produzione letteraria e artistica di diverse epoche. Carlo va alla guerra è il titolo della mostra che, a Palazzo Madama di Torino fino al 17 settembre, espone le pitture murali del Castello de La Rive a Cruet. Commissionate alla fine del XIII secolo dai signori di Verdon, infeudati del castello, si ispirano alle vicende narrate nel Roman de Girart de Vienne, scritto nel 1180 da Bertrand de Bar-sur-Aube, poeta legato ai temi della guerra santa e dell’amore cortese. Protagonisti del poema sono Carlo Magno, un suo giovane cavaliere e la vedova del duca di Borgogna coinvolti in un intreccio di guerra e amore. Tra le ambientazioni create dal poeta e riprese dal pittore ci sono la caccia nella foresta e il banchetto.