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 2018  giugno 03 Domenica calendario

Colonizzati a suon di sbornie. L’alcol conquistò l’America

Il primo sarebbe stato Noè, primo a piantare la vigna e primo a ubriacarsi. Racconta la Genesi che il patriarca avrebbe punito con la schiavitù il nipote Canaan. Piacere e vergogna: Cam, padre di Canaan, aveva chiamato i fratelli a guardare il padre esposto nudo alla vista. Per canonisti e moralisti cattolici fra Medioevo ed età moderna la «follia reversibile» dell’ebbrezza era tollerabile entro le mura di casa, ma costituiva motivo di scandalo oltre che di disordine in pubblico. D’altronde, Gesù amava la convivialità e alle nozze di Cana aveva trasformato l’acqua in vino. E proprio nel vino si realizza la transustanziazione alla quale non credono tutti i cristiani. Immagini e fonti ci dicono per esempio di un Lutero obeso e bevitore molto resistente, ma di birra soprattutto, assai diffusa fra le genti germaniche sin dai tempi di Tacito. Il tema del bere costituiva una questione fra le altre nel confronto fra la Chiesa di Roma e la Riforma. L’ebbrezza costituiva per i luterani un peccato veniale, grave nella misura in cui minacciasse l’ordine pubblico, meno comprensivi si professavano al riguardo i riformati calvinisti. L’ebbrezza annullava la «coscienza di sé come santi», radice per Max Weber dello spirito del capitalismo.
Insomma: ubriacarsi era sin dall’origine un male che degrada la natura divina della creatura umana. Però si era mostrato utile a piegare la resistenza delle popolazioni indigene delle colonie americane. Come nel caso della birra per inglesi e tedeschi, le bevande alcoliche gli indios le ricavavano non dalla vite importata dall’Europa, ma dalla fermentazione per esempio del mais o dell’agave. Per gli indigeni bere costituiva comunque un fatto rituale per preparare i guerrieri alla lotta o celebrare la pace, per accogliere lo straniero o venire a contatto con il soprannaturale. Più a nord delle colonie spagnole, la diffusione dell’acquavite olandese indebolì la resistenza degli indiani Delaware e, per un missionario della Chiesa Morava del secondo Settecento, Manhattan sarebbe stata la traslitterazione di una parola che significava «l’isola dove tutti si ubriacano». L’impatto della conquista avrebbe, dunque, prodotto l’alcolismo?
Noè ha prodotto il vino ma non l’alcolismo, così i contadini andini producono la foglia di coca necessaria per sostenere la scarsa ossigenazione in altura, ma non sono responsabili della produzione e dipendenza dalla cocaina. Questo faceva notare, nel corso di un convegno, un antropologo quechua del Perù alcuni anni or sono. In qualche momento la produzione e poi l’assunzione di bevande alcoliche sono mutate, e si è costruito un codice assai imprecisabile di moderazione.

Di quel codice Claudio Ferlan costruisce la genesi nel suo Sbornie sacre, sbornie profane (il Mulino). La misura imprecisabile non si riferisce solo alla qualità e quantità del bere e alla resistenza individuale, ma soprattutto alle diverse filosofie politiche che ispirarono la colonizzazione. Quella moderazione doveva essere cioè regolata a misura dell’etica puritana e individualista nelle colonie inglesi, o dal controllo dei comportamenti individuali da parte del magistero della Chiesa e dell’autorità politica spagnola? La quale in effetti l’ebbrezza la condannava, ma faceva poi della tassazione degli alcolici una fonte importante del gettito erariale. Ma poi: era mai possibile controllare l’autoproduzione familiare di bevande alcoliche tratte da piante tanto diffuse?
La narrazione di Ferlan attinge a trattati teologici e del canone religioso, alle cronache e alle visitas dei funzionari imperiali, a memorie sino a sfiorare l’età contemporanea rispetto alla quale sorge una domanda. Attraverso quale passaggio storico la sbornia da peccato diventa delitto? E attraverso quali provvedimenti l’autorità politica, ormai prevalente rispetto alla religiosa nella sfera pubblica, tentò di regolare i comportamenti individuali?
Per gli indigeni americani il bere aveva costituito storicamente un fatto straordinario e pubblico tanto quanto ci viene descritto invece corrente, sia in privato che in pubblico, nell’Europa da cui provenivano i colonizzatori. Le incursioni dell’autore non si spingono oltre la guerra civile americana. Ma se pensiamo alla storia del rum e alla produzione di canna da zucchero e melassa, i drammi del vissuto quotidiano degli schiavi neri ci danno il senso dell’autolesionismo, dei tentativi di fuga, dell’alienazione conseguita anche con l’ubriacatura. La risposta potrebbe verosimilmente cercarsi nella percezione della merce nel corso del Settecento: con l’economia classica è stato sostenuto si sia secolarizzata la quotidianità attraverso il mercato. Si sottrassero pertanto la fruizione di prodotti esotici e i piaceri della gola al senso del peccato, e si estese enormemente la domanda sui mercati europei. L’ambivalenza originaria è apparsa allora non solo irrisolta, ma addirittura aggravata. Il varo di alcuni provvedimenti appare retrospettivamente funzionale più sul piano economico che sulla regolazione morale.
Alcuni esempi, a partire dal piano fiscale. Sempre bisognoso di risorse, lo Stato aveva varato maggiori controlli sull’esazione tributaria. In questa direzione si muovevano poi, a metà Ottocento, l’acquisto esclusivo da parte per esempio delle repubbliche centroamericane della produzione, dal tabacco alla chicha (liquore prodotto dalla fermentazione del mais). I controlli su produzione e sulla mescita erano affidati in appalto a privati, i quali anticipavano somme all’erario in previsione di alti ritorni prodotti dalla loro accurata sorveglianza su affari pubblici amministrati dai loro interessi privati. Sul lato del consumo: in età liberale la moderazione era ormai prevalentemente affidata alla discrezione individuale. Per far tuttavia fronte agli effetti della birra e all’impossibilità di controllarne l’autoproduzione, specie nei Paesi europei in via di industrializzazione, si incentivò la diffusione di bevande – soprattutto il caffè, la bevanda dei puritani – in grado di eccitare l’attenzione senza annebbiare la mente. Un’esaltazione dunque delle capacità fisiche e psichiche necessarie nell’applicazione al lavoro. Intorno alle bevande si orchestrò anche una nuova socialità assai diversa a seconda degli strati sociali: per l’aristocrazia inglese negli esclusivi coffee, tea o cocoa club si tessevano trame di affari e politiche, incubatrici dei futuri partiti. Nelle repubbliche latinoamericane alla limitazione del consumo della chicha o del rum si cercò di provvedere vietando per esempio l’importazione degli alambicchi. Difficile si manifestava, in ogni caso, il controllo delle forme di socialità delle «classi lavoratrici e pericolose» nelle taverne importate proprio dalla Spagna nel Nuovo Mondo. Il consumo esotico costituiva comunque un lusso, e la «follia passeggera» continuò a costituire una via di fuga dalla realtà ancorché le autorità proibissero agli osti di dare a credito ai «bevitori problematici» e costringessero i frequentatori alla delazione politica.