La Lettura, 3 giugno 2018
Sono ciò che ricordo. La memoria manipolata
In città circola un nuovo tipo di droga. Si chiama Alice e promette un trip radicalmente diverso rispetto agli stupefacenti tradizionali: non eccita, non seda, non distorce le percezioni, non provoca allucinazioni. Alice funziona per sottrazione: a seconda di quanta se ne assume si regredisce allo stato mentale di cinque, dieci, persino vent’anni prima. Un quadratino sotto la lingua e per mezz’ora il borghese disilluso torna a essere un hippie visionario, la malata d’Alzheimer torna a riconoscere volti e a ricordare canzoni, gli amori distrutti si ricompongono, identità sbiadite riprendono colore.
Comincia così 7 di Tristan Garcia (NN editore, traduzione di Sarah De Sanctis), un romanzo che va a inserirsi nel solco sempre più marcato delle opere letterarie che indagano l’identità umana a partire dalla dimensione del ricordo, ed esplorano la possibilità di modificare la memoria basandosi anche sulle scoperte scientifiche più recenti. Per quanto negli ultimi anni la neurologia abbia fatto significativi passi avanti, tuttavia un composto chimico come quello descritto da Garcia non esiste, e probabilmente non esisterà mai: difficilmente saremo in grado di inventare un modo per liberarci degli strati più recenti della nostra esperienza, e questo perché la nostra mente non è una cipolla mnemonica in cui i ricordi sono organizzati per decadi. La prospettiva di utilizzare droghe e farmaci per modificare la memoria, però, è molto meno balzana di quanto si possa immaginare.
In Hystopia (minimum fax, 2017), David Means descrive un presente alternativo in cui Kennedy è sopravvissuto e ha avviato un programma per aiutare i soldati affetti da DPTS (disturbo da stress post-traumatico) a riscrivere i ricordi problematici con l’aiuto di un farmaco chiamato Tripizoid. Nel nostro mondo JFK è stato assassinato, in compenso però esistono davvero molecole, come lo ZIP e l’anisomicina, che nei test di laboratorio si stanno dimostrando efficaci per l’eliminazione (o il ridimensionamento) di traumi; la preconizzazione di Means è ancora più potente se si considera che le prime «cavie» per farmaci edita-memoria, come il propranololo, sono proprio soldati affetti da DPTS. Hystopia è uscito nel 2016, ma l’idea di cancellare selettivamente ricordi traumatici non è nuova: la psicologia aveva già esplorato questo orizzonte a fine XIX secolo (Pierre Janet e Sigmund Freud), mentre una tendenza parallela si registrava in campo letterario. Nel romanzo Dr Heidenhoff’s Process (1880) Edward Bellamy immaginò un dispositivo meccanico che consentiva di bonificare la mente di alcuni pazienti da ricordi debilitanti. Qualche anno più tardi, nel racconto The memory clearing house (1894), Israel Zangwill raccontava le peripezie di un uomo che aveva trovato il modo di trasferire ricordi da una persona all’altra. Negli anni Cinquanta, un altro autore di fantascienza, L. Ron Hubbard, si appropriò di queste suggestioni per impalcare un profittevole culto religioso: uno dei pilastri della chiesa di Scientology, infatti, è la promessa di rimuovere ricordi traumatici per consentire il raggiungimento del pieno potenziale intellettivo.
Quello che fino alla metà del Novecento era stato poco più di un espediente narrativo, dagli anni Cinquanta in poi ha assunto una connotazione esistenziale: nelle opere di autori come Alfred Bester (L’uomo disintegrato, Mondadori, 1953) e Robert Silverberg (Il secondo viaggio, Nord, 1980) la modificazione dei ricordi non si traduce più in una semplice rimozione di traumi, arriva a compromettere l’identità stessa dell’individuo. Basti pensare al racconto di Philip K. Dick Ricordiamo per voi (poi trasposto su pellicola con il titolo Atto di forza), in cui il protagonista si rivolge a un’agenzia per regalarsi il ricordo di un passato avventuroso.
«Durante l’adolescenza – spiega lo psicologo Dan P. McAdams nel saggio From Actor to Agent to Author (Oxford University Press, 2016) – la maggior parte di noi comincia a interiorizzare una storia del sé che possa spiegare come una persona sia cresciuta e che direzione prenderà la sua vita nel futuro. Gli psicologi danno a questa storia il nome di identità narrativa». Se dunque i ricordi sono i mattoni con cui negli anni edifichiamo la nostra narrativa personale, allora noi, in un certo grado, siamo ciò che ricordiamo di essere. Modificando i nostri ricordi, perciò, finiremmo per modificare il tessuto stesso con cui confezioniamo la nostra identità.
Diversi esperimenti, del resto, hanno dimostrato che è possibile impiantare falsi ricordi nella mente di un individuo, e che alcuni di questi attecchiscono al punto da diventare indistinguibili da quelli autentici. Nell’estate 2013, mentre facevo ricerche per la stesura di Un attimo prima (la cui trama si incardina proprio su una tecnica di editing della memoria), mi sono imbattuto in un esperimento intitolato A photograph is worth a thousand lies: a venti studenti neozelandesi erano state presentate delle foto relative alla propria infanzia ed era stato loro richiesto di raccontare il ricordo che ogni immagine evocava; quello che gli studenti non sapevano è che tra quelle immagini c’era un fotomontaggio che li ritraeva durante un viaggio in mongolfiera. Nessuno degli studenti era mai salito su una mongolfiera, eppure la maggior parte fu in grado di raccontare un ricordo che non aveva mai vissuto; alcuni di loro, anche una volta rivelato l’inganno, continuavano a sostenere di ricordare immagini specifiche di quella giornata.
A questo punto una domanda sorge spontanea: se i ricordi traumatici possono essere ridimensionati, e se i falsi ricordi rischiano di sembrarci autentici, possiamo davvero fidarci della nostra memoria? Se facciamo fatica a rispondere è per via della concezione errata che abbiamo del cervello umano. La rivoluzione digitale degli ultimi trent’anni ha fatto sì che il linguaggio dell’informatica si facesse sempre più pervasivo, al punto da essere abitualmente mutuato dal giornalismo divulgativo: e allora ecco che il cervello diventa un computer, la memoria un hard-disk e i ricordi dei file da recuperare. In realtà, la nostra memoria funziona in maniera molto più elastica, per certi versi creativa: parafrasando Oliver Sacks, sarebbe più corretto parlare di un diario in continua fase di revisione. Nel momento stesso in cui registriamo un’esperienza, un’immagine o un qualsiasi ricordo, esponiamo quell’informazione alla possibilità di essere modificata e, in un certo senso, riscritta. Non solo, alcune ricerche hanno mostrato come ogni volta che rievochiamo un ricordo lo «aggiorniamo» con informazioni relative al presente; questo ha probabilmente una ragione evolutiva: la nostra abilità mnemonica non si è sviluppata per ricordare con precisione eventi passati, ma aiutarci a prendere le giuste decisioni nel presente.
Quando in Andanza (NN, 2017, traduzione di Gioia Guerzoni), Sarah Manguso scrive che «la memoria incontaminata potrebbe esistere nel cervello di pazienti che soffrono di amnesia – nel cervello di qualcuno che non la può contaminare con il ricordo», dice qualcosa che, per quanto paradossale, è piuttosto vicina al vero.
Negli ultimi mesi, alcuni studi hanno ampliato l’orizzonte descritto fino a qui e, come spesso accade, la realtà si è ritrovata a imitare la finzione. Lo scorso 14 maggio, un’équipe di ricercatori della Ucla guidata da David Glanzman è riuscita a «trasferire» un ricordo traumatico tra due esemplari di Aplysia, un mollusco marino, utilizzando innesti di Rna (difficile qui non pensare al racconto di Zangwill); qualche settimana prima un gruppo di scienziati dell’università di Berkeley aveva presentato su «Nature» una nuova tecnica che consente di attivare specifici set di neuroni utilizzando proiezioni olografiche, gettando le basi per una tecnologia che, in futuro, potrebbe consentire di modificare le sensazioni associate a determinati ricordi, o addirittura innestarne di inediti (un po’ come in Ricordiamo per voi).
Insomma, non si tratta più di capire se certi orizzonti tecnologici verranno esplorati, ma come, e con quali esiti. Quando si valuta la possibilità di eliminare ricordi traumatici bisogna tenere anche conto che una simile procedura potrebbe rivelarsi controproducente: la nostra identità viene plasmata anche dai traumi che subiamo, e dal modo in cui li superiamo. I ricercatori del Columbia University Medical Center stanno cercando una soluzione a questo problema: in un articolo pubblicato nel 2017 su «Current Biology», hanno dimostrato di riuscire a eliminare selettivamente una componente accessoria di un ricordo traumatico senza eliminarlo completamente. Le distopie ci hanno spesso messo in guardia da simili avanguardie tecnologiche, descrivendo governi che si impegnano nella rimozione dei ricordi e nella parallela riscrittura della storia ufficiale. Lo scorso aprile il Saggiatore ha pubblicato, per la prima volta in Italia, L’isola dei senza memoria di Yoko Ogawa (traduzione di Laura Testaverde), un romanzo ambientato in un’isola in cui le persone progressivamente dimenticano ogni cosa, dagli uccelli che volano in cielo ai libri che occupano le case; una condizione che assomiglia più a una cecità che a un’amnesia e che viene fatta rispettare da un’apposita polizia segreta.
Letto oggi, il libro di Ogawa sembra paradossalmente metterci in guardia dalla nostra crescente difficoltà a dimenticare: in un mondo in cui la memoria viene sempre più affidata a protesi esterne (dalle cartelle del nostro computer, zeppe di foto e video, alle istantanee biografiche dei nostri profili social), molti dettagli che un tempo sarebbero scivolati spontaneamente nel dimenticatoio rimangono definiti e reperibili in qualsiasi momento. Si tende a considerare l’atto di dimenticare come qualcosa di negativo, mentre è una componente fondamentale di una memoria sana: la nostra identità si basa su un delicato equilibrio tra ciò che riusciamo a dimenticare e ciò che decidiamo di ricordare.